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In rete per combattere le disuguaglianze | Giuseppe De Marzo

Intervista a Giuseppe De Marzo, coordinatore nazionale Rete dei Numeri Pari

La Rete dei Numeri Pari conta 446 realtà aderenti che praticano iniziative di cittadinanza attiva, di solidarietà e di mutuo sostegno. Sono punti di riferimento di natura comunitaria per un numero sempre più ampio di persone, spesso riassunti col termine “mutualismo”. Parliamo di associazioni, comitati, campagne, centri antiviolenza, sindacati e tante altre realtà presenti sul territorio. Ne abbiamo parlato con Giuseppe De Marzo, economista, scrittore, attivista e coordinatore nazionale della Rete dei Numeri Pari.

Cos’è la Rete dei Numeri Pari?

È una realtà che unisce centinaia di organizzazioni sociali diffuse in tutta Italia, che condividono l’obiettivo di garantire diritti sociali e dignità a quei milioni di persone a cui sono stati negati. La rete nasce sulla scia della campagna contro la povertà lanciata da Libera e Gruppo Abele “Miseria ladra”. Il passaggio da una campagna alla rete è stato necessario dal momento che i numeri sulla povertà segnalavano una questione strutturale e non più emergenziale. Serviva uno sforzo maggiore – e per certi versi utopistico – che rendesse davvero possibile la costruzione dal basso in una rete tra pari. La Rete dei Numeri Pari, quindi, è nata intorno alla condivisione di uno scopo comune: sconfiggere la povertà. Allo stesso tempo sono diversi gli obiettivi condivisi: diritto all’abitare, accesso a servizi di qualità, reddito minimo garantito, lotta alle mafie che fioriscono dove c’è maggiore disuguaglianza, diritto all’accoglienza e assoluta opposizione all’autonomia differenziata.

Ci sono molti temi diversi, dunque, che convivono nella Rete?

La Rete è una piattaforma intersezionale con una leadership plurale e collettiva. Perché solo affrontando insieme i diversi temi di cui si occupano queste realtà si possono davvero abbattere le disuguaglianze. Siamo convinti che la soluzione non sia l’uomo forte al comando e che nessuno ce la faccia da solo in questa fase storica. Chi fa parte della Rete da anni si sporcano le mani”, operando una forma innovativa di mutualismo solidale ed ecologico.

“Solo affrontando insiemei diversi temi di cui si occupano le realtà della Rete si possono davvero abbattere le disuguaglianze: la soluzione non è l’uomo forte al comando e nessuno ce la può fare da solo in questa fase storica”

Ecco, i vostri esperimenti di mutualismo sono stati anche oggetto di studio.

Sì, tra il 2020 e il 2022 è stata portata avanti un’indagine dal Gran Sasso Science Institute su 91 realtà aderenti alla Rete dei Numeri Pari. Da questa indagine è stato pubblicato il rapporto “La Pienezza del Vuoto”, i cui risultati sono estremamente interessanti e dimostrano quanta sia necessario uno spazio dove aderire ad un obiettivo comune, di condividere pratiche e costruire alleanze.

Alleanze che si costruiscono nella Rete?

Innanzitutto le realtà aderenti si iscrivono in maniera autonoma, come soggettività e poi cominciano a far parte di un’infrastruttura. Esiste un coordinamento nazionale che è riuscito ad aprire un tavolo permanente con cinque forze politiche che hanno sottoscritto la nostra agenda sociale, un risultato straordinario, ma poi chi aderisce alla rete è incoraggiato ad unirsi in maniera autonoma.

Attraverso i nodi territoriali presenti in tutto il Paese?

Sì, quando una realtà si iscrive deve specificare che forma di mutualismo opera, così è possibile scambiarsi informazioni e competenze. Le convocazioni sul territorio, poi, sono autonome e libere. Così si creano delle alleanze a geometrie variabili, si incontrano realtà apparentemente diversissime che poi fanno cose insieme. Non è più possibile seguire formalismi passati nelle relazioni, ma serve un’innovazione nelle pratiche, noi proponiamo un’azione senza imposizione.

“Tutti questi progetti dimostrano due cose fondamentali: la prima è che da soli non si può vincere, la seconda è che quando si impara a conoscersi e riconoscersi si creano rapporti di fiducia e ci si radica sul territorio”

Ci può fare degli esempi di risultati di questa attività di mutualismo?

C’è la vecchia azienda Maflow, storica fabbrica di Trezzano sul Naviglio del comparto automotive italiano, chiusa nel 2012 con 330 lavoratrici e lavoratori licenziati che oggi si chiama Rimaflow ed è stata recuperata. Adesso è un progetto di lavoro basato su mutuo soccorso, solidarietà, uguaglianza e autogestione. Mette insieme disoccupati, precari, migranti, disabili, artigiani, artisti, agricoltori biologici, comunità e associazioni del territorio. C’è Famiglie in Rete in Veneto lanciata da Pasquale Borsellino, che promuove la creazione di reti orizzontali che possano praticare la sussidiarietà. Fare un elenco sarebbe riduttivo, ma tutti questi progetti dimostrano due cose fondamentali: la prima è che da soli non si può vincere, la seconda è che quando si impara a conoscersi e riconoscersi si creano rapporti di fiducia e ci si radica sul territorio.

Riuscendo a superare anche le difficoltà?

Assolutamente! La pandemia è stata un grande banco di prova, ma sono addirittura nate nuove realtà che hanno aderito alla rete; questo perché hanno esperienza diretta del territorio, conoscono i bisogni principali, sono dentro alle questioni e sono fisicamente vicini. Questo fa sì che vengano riconosciute e ritenute credibili. Bisogna fare le battaglie insieme, costruire empatia, accettare la complessità, non esistono scorciatoie. Siamo abituati a sentirci dire dalla politica che basta il leader forte e che ci sono soluzioni semplici a problemi complessi. Il risultato è che la gente non va più a votare, soprattutto tra i ceti più poveri. Per far passare la complessità bisogna stare insieme, perché politica significa uscire insieme dai problemi: per questo i progetti di mutualismo funzionano.

“Abbiamo la geografia della speranza. Non è vero che in Italia non si riesce a fare nulla, lo dimostrano migliaia di persone che ogni giorno lavorano per sconfiggere la povertà e costruire un paese e un mondo migliore”

Questo è un esercizio della cittadinanza?

La cittadinanza dovrebbe enfatizzare il riconoscimento e l’assegnazione dei diritti di uno Stato-nazione e quindi di una comunità. Nel nostro Paese si esercita soprattutto con l’associazionismo e negli spazi fisici, perché i cittadini pensano che la politica attuale sia insufficiente. Anche l’esercizio della cittadinanza però deve innovarsi. In questo momento, in cui la crisi ecologica e il collasso climatico prodotto dal modello produttivo ed energetico sta manifestando i suoi effetti in maniera visibile, è ancora più urgente riconoscere la relazione tra diritti di cittadinanza e questioni ambientali, perché si muore sempre più spesso, ci si ammala di più, ci sono migrazioni di massa a causa del cambiamento climatico e della riduzione della biodiversità. Dobbiamo superare il concetto classico di cittadinanza.

Come?

Noi viviamo una democrazia a bassa intensità: si vota sempre meno, cresce l’esclusione sociale e l’analfabetismo di ritorno. Bisogna passare al concetto di “meta-cittadinanza ecologica”, riprendendo le parole di Eduardo Gudynas, e inserire nei concetti di cittadinanza le questioni ambientali e di rapporto con le altre entità viventi, senzienti e meno. Dobbiamo incorporare i diritti della natura come è accaduto nelle costituzioni di Ecuador e Bolivia. Questo è un ragionamento razionale, per garantire giustizia sociale devo garantire la giustizia ambientale, l’accesso alle risorse e allo spazio produttivo, ai servizi ambientali gratuiti. La precondizione per la giustizia ambientale è la giustizia ecologica, garantire ad altre entità viventi la possibilità di vivere la loro vita. Se non riconosciamo l’interconnessione delle vite sulla terra e il fatto che tutte siano fondamentali per il mantenimento della specie non potremo sopravvivere. La cittadinanza antropocentrica deve scomparire e lasciare il posto alla metacittadinanza ecologica che includa questi temi.

Una sfida cruciale del nostro presente.

Sì, senza dubbio. Visitando il sito della Rete dei Numeri Pari si vedrà la mappa delle realtà iscritte che si chiama “Geografia della Speranza”, un termine che ho appreso da Padre Javier Giraldo in Colombia, dove, in un momento di sconforto, mi illustrò tutti gli spazi dove si stava facendo qualcosa di buono. “È la geografia della speranza” mi disse. E oggi ce l’abbiamo anche noi. Non è vero che in Italia non si riesce a fare nulla, lo dimostrano migliaia di persone che ogni giorno lavorano per sconfiggere la povertà e costruire un paese e un mondo migliori.

Dalla rivista Fondazioni aprile – giugno 2023