Intervista a Giovanni Moro, docente presso l’Università Sapienza di Roma
Giovanni Moro è un sociologo politico, docente presso l’Università Sapienza di Roma ed esperto di fenomeni connessi alla cittadinanza e ai suoi mutamenti, un tema sul quale ha pubblicato diversi lavori. Lo abbiamo intervistato.
Professore, oggi come possiamo considerare la cittadinanza?
Oggi è il caso di guardare la cittadinanza non soltanto come uno status legale, un modello normativo o un ideale di cittadino: la cittadinanza è un fenomeno con una sua materialità in ambito sociale, politico, economico, culturale. La definisco infatti come un “dispositivo funzionale a garantire coesione, inclusione e sviluppo delle comunità politiche”.
In cosa consiste questo dispositivo funzionale?
Dagli studi sulla cittadinanza, che sono esplosi soltanto agli inizi degli anni ’90 dello scorso secolo, si può trarre una definizione che ha in sé tre componenti principali. Il primo è l’appartenenza, che significa essere riconosciuti dallo Stato e dal resto dei cittadini e sentirsi parte della comunità. Il secondo riguarda i diritti e i doveri: standard di vita riconosciuti, garantiti e protetti dalla comunità politica e dalle sue istituzioni, con il relativo esercizio dei doveri, standard di comportamento che non sono limitazioni ma garanzie per l’effettiva attuazione dei diritti. Infine, la partecipazione, cioè il concorso dei cittadini alla definizione delle finalità, degli standard e delle regole del gioco della comunità politica.
Come prende forma il dispositivo della cittadinanza?
La cittadinanza si definisce e si ridefinisce nelle norme di rango costituzionale, ovviamente, ma ci sono altri due luoghi che ne modificano l’estensione e il contenuto. Il primo è quello che ho chiamato “deposito civico”: l’insieme delle norme secondarie, delle procedure amministrative, delle politiche pubbliche, delle sentenze dei giudici e degli accordi collettivi. Decidere, per esempio, che per accedere ad alcuni diritti civili occorra entrare in una piattaforma digitale (pensiamo allo Spid), significa effettuare un’operazione di ridefinizione dei confini della cittadinanza. L’altro luogo nella letteratura viene chiamato “pratiche di cittadinanza”, cioè come i cittadini impiegano la cittadinanza. Si pensi alle battaglie per i diritti dei lavoratori, i diritti delle donne, delle persone con disabilità, ecc. Anche l’attività dei cittadini, insomma, concorre a definire o ridefinire la cittadinanza
La cittadinanza è un fenomeno con una sua materialità in ambito sociale, politico, economico e culturale. Ha in sé tre componenti principali: appartenenza, diritti e doveri e partecipazione
Nel suo libro “Cittadinanza” (Mondadori 2020) ha parlato di una messa in discussione del modello tradizionale della cittadinanza democratica. Perché?
Dal Novecento abbiamo ereditato una versione specifica della cittadinanza: legata all’identità nazionale, dove lo status è conferito dallo Stato e i diritti sono quelli tradizionali (civili, politici e sociali), a cui si sono poi aggiunti i diritti umani. In questo modello, la partecipazione concorre alla costruzione del sistema politico. Ovvero, per semplificare, i cittadini fanno le domande e il sistema politico dà le risposte. Il problema è che questa cittadinanza ereditata non funziona più, è in crisi e in difficoltà per una moltitudine di ragioni che riguardano fenomeni, processi ed eventi globali.
Ci può fare qualche esempio?
I fenomeni migratori, che hanno messo in discussione i confini e le frontiere nazionali. Le rivendicazioni di nuovi diritti, che non riguardano più una domanda di eguaglianza, assunto fondamentale della cittadinanza democratica, ma il riconoscimento delle differenze. Le identità ibride, che sfatano la priorità assegnata all’identità nazionale. L’azione dei sistemi di comunicazione, che non hanno più un territorio di riferimento. L’evidente distacco dei cittadini dal sistema politico e la conseguente debolezza nell’esercizio della sovranità popolare attraverso il voto.
Dunque la cittadinanza sta tramontando?
No, la cittadinanza non è morta, come qualcuno sostiene, ma si sta trasformando. Certamente la sovrapposizione tra cittadinanza e nazionalità è superata, ma stanno nascendo altre “cittadinanze”. Si tratta di nuove rivendicazioni di status di cittadinanza come quella europea, di genere, la cittadinanza digitale, globale, di impresa, legata al consumo e la cittadinanza attiva. Sono fenomeni in cui persone e risorse si mobilitano modificando il senso comune, le priorità della vita pubblica, influenzando, dunque, anche le iniziative legislative. Tutte, però, mettono in discussione il modello di cittadinanza che abbiamo ereditato, definendo e ridefinendo lo status, i confini interni ed esterni al Paese e l’identità dei cittadini. La cittadinanza, dunque, continua ad essere un’arena politica e, come afferma Hanna Arendt, rappresenta una grande risorsa perché rende possibile impegnarsi, far valere il proprio punto di vista e pretendere che venga tenuto in considerazione dalla politica.
“Il concetto di identità nazionale, come ereditato dal Novecento, è ormai superato in ragione di fenomeni e processi globali come migrazioni, identità ibride, sistemi di comunicazione e distacco dei cittadini dal sistema politico”
Se la sovrapposizione tra cittadinanza e nazionalità è ormai superata, perché esistono ancora correnti che si appellano al nazionalismo?
È in corso oggi, in Italia e nel mondo, da parte di leadership, gruppi dirigenti, culturali e politici, un tentativo di ridefinizione delle comunità politiche attraverso il linguaggio della nazionalità e del nazionalismo. Ma, a differenza del nazionalismo dell’Ottocento, che tendeva ad unire, quello attuale, che qualche studioso chiama “post-nazionalismo”, tende invece a dividere e a ridefinire le comunità in senso sempre più stretto. Non possiamo certo affermare che le nazioni non esistano più ma, come ormai la ricerca scientifica ha acclarato da tempo, le comunità nazionali sono sempre comunità immaginate e la loro identità è misteriosa e si modifica nel tempo.
Tra quelle che ha citato, la cittadinanza attiva sembra essere un’espressione molto diffusa. Come la definisce?
Intorno a questa espressione, di cui io sono parzialmente responsabile per la sua introduzione in Italia nel linguaggio comune, c’è una forte confusione. Spesso si considera come un modello ideale di cittadinanza o viene associata al prendere parte alla vita della società o, ancora, risulta quasi una “parola magica” da aggiungere al concetto sempre meno chiaro di cittadinanza. Per cittadinanza attiva io intendo un fenomeno che porta un gruppo di cittadini a organizzarsi e attivarsi per occuparsi dell’interesse collettivo: tutelare o lottare per il riconoscimento di nuovi diritti, prendersi cura dei beni comuni, materiali e immateriali (come la legalità) e dell’empowerment di soggetti in condizioni di deprivazione, oppressione e marginalità. È importante sottolineare che ormai questa è un’attitudine che va al di là delle forme giuridiche, cioè delle associazioni di cui si conosce il codice fiscale, ma si tratta di un approccio al vivere nella comunità che, in Italia, è riconosciuto dalla Costituzione come “principio di sussidiarietà”.
“È necessario non basare più la cittadinanza sulla “comunità di origine” ma sulla “comunità di destino”, la cui base non è statale ma è prima culturale e sociale, e alla cui definizione siamo tutti chiamati a partecipare”
Un’ultima domanda, come cambierà, secondo lei, la cittadinanza?
Non è facile rispondere, perché si sta modificando profondamente prendendo direzioni che possiamo osservare ma non definire precisamente. Penso però ci siano due imperativi. Il primo è continuare ad osservare e cercare di comprendere la società in tutte le sue trasformazioni. Il secondo è la necessità di non basare più la cittadinanza su una “comunità di origine”, ma dobbiamo porci il problema di ridefinirla come una “comunità di destino”, la cui base non è statale ma è prima culturale e sociale, e alla cui definizione siamo tutti chiamati a partecipare.
Dalla rivista Fondazioni aprile – giugno 2023