Editoriale di Giorgio Righetti, direttore di Acri
per Fondazioni Marzo 2023
Il termine “talenti” è particolarmente abusato nel mondo dell’educazione e della formazione e spesso utilizzato in forma impropria. Si tende, infatti, ad indentificare il talento con la particolare capacità di eccellere rispetto a un piano prestabilito del sapere, della conoscenza e delle competenze. Semplificando, è un talento colui che eccelle a scuola, colui che, rispetto a quelli che sono i programmi di studio, è in grado di apprendere con più facilità, con più velocità, con maggiore capacità di assimilazione e restituzione. Secondo questa impostazione, i talenti, soggettivizzati, vengono, forse inconsapevolmente, identificati con i “migliori”. Ma c’è un’altra lettura del termine talenti, che potrebbe essere tradotta con “attitudine”, “predisposizione”, “inclinazione”. In questa accezione, il talento è qualche cosa che ciascun individuo possiede, che è frutto del suo essere e della sua storia. Il talento è diverso da individuo a individuo, ma tutti, in qualche modo, ne sono dotati. Secondo questo punto di vista, non avrebbe senso una soggettivazione del termine, perché il talento manterrebbe il suo significato oggettivo, connesso a una specifica qualità dell’individuo, perdendo anche quella connotazione selettiva. Un Paese che fosse in grado di assecondare le predisposizioni dei propri cittadini e di valorizzare le qualità individuali, i talenti, sarebbe non solo un Paese più felice, ma anche con una più efficiente allocazione delle risorse. L’attuale sistema educativo e formativo valuta i discenti sulla base di un set predefinito di elementi uguali per tutti, che si compone di programmi, metodi di studio e sistemi di valutazione. Chi ha una migliore prestazione rispetto a questo set prestabilito di elementi, secondo questa impostazione, viene identificato con il termine “talento”. Dal lato opposto, c’è un’altra impostazione, che non soggettivizza il termine talento, che può ben essere rappresentata da una frase attribuita a Albert Einstein: “Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido”. Tutti concordano con questa frase, ma poco si fa affinché il nostro sistema educativo e formativo destini tempo e risorse per applicarne l’insegnamento: cioè, che è importante far emergere da ciascun individuo il meglio di sé, evitando di costringere tutti ad adattarsi a un unico modello.
“Un Paese che fosse in grado di assecondare le predisposizioni dei propri cittadini e di valorizzare le qualità individuali, i talenti, sarebbe non solo un Paese più felice, ma anche con una più efficiente allocazione delle risorse”
È evidentemente cosa complessa e impegnativa, che richiederebbe una rivoluzione, sul piano didattico. Ma è anche un fatto culturale, che, se diventasse valore condiviso, potrebbe produrre qualche buon risultato senza sforzi imponenti. Se si liberassero gli insegnanti dall’ossessione dei programmi, delle schede di valutazione, degli adempimenti burocratici, e li si orientasse ad adattare gradualmente l’insegnamento alle caratteristiche di ciascun allievo, forse si farebbe un passo in avanti. Il tentativo di recuperare questa attenzione all’individuo operata attraverso le attività di “orientamento”, non è purtroppo sufficiente. L’orientamento è, infatti, uno strumento passivo, che prende atto di quello che si è, mentre l’emersione dei talenti è un approccio attivo di stimolo e insegnamento per far trovare a ciascuno la propria via, la propria inclinazione, la propria strada e garantire il diritto all’autostima e alla soddisfazione personale. Una scuola più inclusiva, che adotti percorsi didattici che garantiscano il diritto alla diversità per incentivare le differenti qualità e inclinazioni personali, favorirebbe una più agevole emersione dei talenti, per far nuotare tutti i pesci nell’acqua.
Dalla rivista Fondazioni gennaio – marzo 2023