Intervista a Dario Ianes, docennte di Pedagogia e didattica speciale all’Università di Bolzano
per Fondazioni – dicembre 2022
Di scuola e inclusione educativa abbiamo parlato con Dario Ianes, professore di Pedagogia e didattica speciale all’Università di Bolzano, molto attivo sul tema e autore di diverse pubblicazioni.
Il suo ultimo libro s’intitola “La Speciale normalità. Strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i Bisogni Educativi Speciali”.
Cosa si intende per “speciale normalità”?
Si tratta di un concetto che tiene insieme due temi. La normalità, che vuol dire avere la possibilità di fare ciò che tutti fanno: andare a scuola, appartenere a una classe, avere dei materiali sui quali studiare, dispositivi per comunicare e diversi insegnanti dai quali apprendere e con cui confrontarsi. La normalità, in questo senso, ha un grandissimo valore di appartenenza, partecipazione e costruzione di un’identità sociale. Se un ragazzo ha un disturbo, con delle specifiche necessità, spesso la “normalità” non riesce ad accoglierla e a rispondervi. Si passa allora al secondo tema, la specialità, la necessità di specifici materiali didattici, competenze degli insegnati, tempi e modi di apprendimento. C’è bisogno dunque di accogliere la specialità nella normalità. La normalità deve arricchirsi, deve diventare una “speciale normalità”, solo in questo modo si metteranno in campo risposte etiche ed efficaci, senza isolare o allontanare nessuno.
Qual è la situazione della scuola italiana da questo punto di vista? E rispetto al resto dell’Europa?
Innanzitutto bisogna mettere in risalto che in molti sistemi educativi del mondo vige ancora la divisione tra “scuole normali” e “scuole speciali”. In Italia, al contrario, sono già passati quarant’anni da quando questa separazione è stata abolita in favore dell’integrazione e dell’inclusione scolastica. In generale, possiamo affermare che nel DNA culturale l’inclusione nelle scuole non è più negoziabile, nessuno rivendica un salto nel passato con la separazione delle scuole o delle “classi speciali”. Tuttavia, la scuola italiana non è una ma sono tante, con altrettante modalità di realizzare la didattica e in molte scuole emergono ancora delle difficoltà di implementazione concreta. Spesso i docenti delegano agli insegnanti di sostegno il percorso formativo degli alunni con disabilità o con DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), relegandoli in aule a parte, riproducendo così quella logica di separazione. Questa deriva negativa, che tutti cerchiamo di contrastare, si presenta spesso come un modus operandi.
Quali sono le cause di questo modus operandi?
Una delle cause è la mancanza di specializzazione dei docenti e, soprattutto, dei docenti di sostegno. Spesso le cattedre di sostegno vengono date a persone che non hanno una specifica formazione e che sono dunque incapaci di accompagnare gli alunni con disabilità o DSA. C’è poi un problema di precarietà degli insegnanti di sostegno, che cambiano una o più volte l’anno, causando discontinuità e frammentazione della didattica. Sulla specializzazione c’è anche un divario territoriale: spesso il numero dei posti nelle scuole di specializzazione sono nettamente inferiori rispetto al bisogno di docenti di sostegno delle scuole del territorio. Ma l’elemento di maggiore criticità riguarda la frattura tra la formazione dei docenti della scuola primaria e dell’infanzia e quelli della scuola secondaria, di primo e secondo grado.
Ci può spiegare meglio?
La formazione pedagogica dei docenti della primaria ha una durata di 5 anni e approfondisce gli aspetti pedagogici, psicologici, educativi e didattici che la professione necessita. Al contrario, chi vuole diventare docente alle scuole secondarie, dopo aver terminato la laurea triennale, può accedere ad una cattedra ottenendo, spesso senza validi corsi ed esami, pochi crediti formativi, secondo l’idea gentiliana “ho studiato e quindi so e posso insegnare”. Oltre a ciò, per gli insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia sono previste due ore di co-progettazione settimanale, per programmare la didattica, valutare il percorso di ciascun alunno e decidere insieme la linea da seguire. Nella scuola secondaria queste due ore scompaiono. Questa frattura che ripercussioni ha per gli alunni? In particolare quelli con disabilità o DSA? Nella scuola primaria c’è una maggiore attenzione, cura, flessibilità e competenza, dunque i percorsi per lo più funzionano. Nella secondaria, al contrario, emergono numerose difficoltà, rigidità nella didattica e incapacità dei docenti che spesso comporta l’isolamento dell’alunno.
Quali potrebbero essere delle soluzioni per superare queste criticità?
Innanzitutto bisogna partire dalla formazione dei docenti, soprattutto della scuola secondaria di primo e secondo grado, non solo prima di accedere alla professione, come spiegavo prima, ma anche in itinere. È necessario un aggiornamento continuo della formazione dei docenti perché gli alunni cambiano, la ricerca va avanti e anche le metodologie didattiche: l’aggiornamento dovrebbe essere una pratica intrinseca a questa professione. Inoltre, bisogna inserire nella scuola secondaria anche le ore di condivisione e co-progettazione dei docenti, che sono molto più numerosi rispetto alla scuola primaria, e proprio per questo dovrebbero concertare la loro pratica metodologica e dare maggior attenzione al percorso di ciascun alunno.
Il principio dell’“Inclusione educativa” in cosa consiste?
Secondo questo principio, ogni alunno, a prescindere dalla sua condizione, deve trovare nella scuola l’ambito adatto alla propria crescita e al proprio percorso formativo. È importante ricordare che si va a scuola per due motivi: per apprendere e per interagire con i coetanei e con i docenti, affinché si costruisca la propria identità sociale. Entrare in un gruppo significa infatti sviluppare il proprio essere sociale, il senso di comunanza, di appartenenza e di confronto con gli altri. Scuola non può e non si può considerare far apprendere nozioni in una sala a parte, con un insegnante, in un contesto di isolamento. L’inclusione educativa è dunque una didattica che valorizza le differenze, risponde ai bisogni del singolo ma facendo attenzione alla classe, affinché l’ambiente comune sia accogliente e le attività proposte vedano la partecipazione di tutti.
In che modo si possono avviare strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i Bisogni Educativi Speciali?
Due sono le strategie fondamentali. La prima è costruire una didattica il più possibile laboratoriale e meno frontale. Far lavorare gli alunni affinché, insieme, costruiscano degli “oggetti culturali”, ponendoli in una condizione “attiva” nella quale chiunque, con le proprie peculiarità, può contribuire. Bisogna dunque scendere dalla cattedra e mette in moto laboratori. Contemporaneamente, far lavorare i ragazzi in gruppo. Una delle risorse più valide per l’inclusione è la classe, che, se guidata da docenti competenti, può mettere in campo delle strategie creative, che si rinnovano e si rimodulano, permettendo a tutti di sperimentare il lavoro e il confronto all’interno di un team diversificato, imparando così ad accogliere e valorizzare le diversità per un progetto comune. Così, forse, la normalità diventerà più speciale, accogliente e diversificata.