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Lobbying è partecipazione | Alberto Alemanno

Intervista a Alberto Alemanno, fondatore di The Good Lobby
per Fondazioni ottobre 2020

 

Nel nostro Paese, diversamente dal mondo anglosassone, il termine lobbying viene spesso utilizzato con un’accezione negativa, legata al raggiungimento di interessi privati. C’è, invece, un italiano a Bruxelles che con il suo lavoro cerca di dimostrare il contrario: fare lobbying è uno strumento per perseguire il bene comune, coinvolgendo tanti soggetti della società. È Alberto Alemanno, fondatore di The Good Lobby. L’abbiamo intervistato.

Cosa significa “fare lobbying”?

“Fare lobbying” significa innanzitutto partecipare, e dunque contribuire al processo decisionale. In quanto tale, è attività non soltanto legittima, ma necessaria in ogni democrazia. Fare lobbying permette a chiunque di informare il decisore di come le sue decisioni e omissioni – o ancora le sue politiche pubbliche – incidano sugli interessi e dunque opportunità dei vari attori presenti in società. È soltanto così che si informa, e arricchisce, il processo decisionale, e – premesso che tutti gli interessi si trovino espressi – si legittima il suo risultato. La resistenza culturale a tale fenomeno deve essere ricondotta al fatto che, nel nostro Paese ma anche altrove, “fare lobbying” è rimasto una prerogativa di interessi organizzati – per lungo tempo definiti quali corpi intermedi – che avevano storicamente accesso al potere decisionale, e fungevano pertanto da cinghia di trasmissione esclusiva tra società civile e i nostri rappresentanti. La progressiva erosione dell’intermediazione e della sua capacità di rappresentare istanze presenti sul territorio – istruttiva a tal riguardo l’indagine Demos su ‘Gli italiani e lo Stato’ che certifica da anni un calo costante della fiducia nei confronti di partiti, sindacati e associazioni di categoria – richiede oggi una democratizzazione del lobbying; e ciò non può che passare da una demistificazione del fenomeno, al fine di promuovere una sua normalizzazione nell’immaginario collettivo. Questa è la missione dell’organizzazione non profit, The Good Lobby, che ho fondato a Bruxelles nel 2015 e che opera in Italia dallo scorso anno: promuovere una nuova comprensione di tale fenomeno, e, in primo luogo, rafforzare la capacità della società civile a “fare lobbying” dinanzi al potere incontrastato delle corporation e degli interessi “particolari” che danneggiano quelli collettivi e generali.

Come si convincono i cittadini a sfruttare le loro capacità per fare lobby, quando in Europa e nel mondo sembra avere molto appeal la retorica populista che “scollega” i cittadini dai centri di potere, crea un senso di antagonismo e promuove un forte individualismo?

Nel momento in cui si accetta che il lobbying è partecipazione, allora qualunque nuova forma di mobilitazione dal basso – da un flashmob a una raccolta firme – volta a influenzare un processo decisionale diventa una forma di lobbying: è ciò che definisco lobbying cittadino (in un libro in uscita anche in Italia con Tlon). Questa forma di mobilitazione e influenza si differenzia dal lobbying commerciale poiché persegue obiettivi di interesse pubblico, che trascendono da quelli meramente privati di una lobby tradizionale. Potrei citare, a esempio, un’organizzazione non governativa che promuove un cambiamento legislativo a vantaggio della collettività (tutela del territorio, di una minoranza etnica, o altro), un movimento civico che si oppone alla costruzione di una fabbrica inquinante, un gruppo di studenti che si battono nella loro città per un servizio di trasporto pubblico efficiente e regolare. Il lobbying cittadino, in quanto partecipazione, è complementare e non antagonista alla democrazia rappresentativa. Contribuisce semmai a mobilitare cittadini e organizzazioni che troppo spesso si sentono impotenti e sfiduciati, coinvolgendoli nei processi decisionali, creando un legame nuovo tra società civile e istituzioni. I cittadini lobbisti aiutano – e non ostacolano – il lavoro dei nostri rappresentanti, informandoli e portando dei punti di vista potenzialmente non meno rilevanti di quelli delle corporation e delle imprese. In quanto tale, il lobbying è una forma di controllo dell’esercizio della rappresentanza da parte degli eletti ma anche un contributo costruttivo al loro operare. Perché una lobby di cittadini dovrebbe fare meglio?

Perché coinvolgere i cittadini migliora la società?

Per comprendere il potenziale della partecipazione cittadina, occorre partire da un’analisi lucida della realtà degli attuali processi decisionali. Oggi, i nostri ministeri, parlamentari, ma anche governatori e sindaci si trovano ad adottare decisioni che pesano significativamente sulle opportunità di vita e sullo sviluppo dei cittadini e di intere comunità, senza che questi soggetti siano stati necessariamente ascoltati. In assenza di una partecipazione cittadina, sia essa organizzata o spontanea e dal basso, si corre il rischio che quelle decisioni politiche siano invece fortemente influenzate da interessi privati – legittimi, ma pur sempre di parte – in grado di farsi ascoltare perché professionalmente strutturati per influenzare il processo decisionale medesimo. Una o più lobby cittadine avrebbero il merito di offrire al decisore una fotografia più accurata della realtà sulla quale egli sta per incidere attraverso una nuova politica pubblica. Il lobbying cittadino serve dunque da contraltare alla sovrarappresentanza degli interessi organizzati, e permette di eguagliare l’accesso ai processi decisionali, in linea con il principio di eguaglianza politica. Oggigiorno, tale principio è non soltanto dimenticato ma è stato completamente sovvertito: il potere politico che ciascuno di noi esercita in società non è eguale, non ha lo stesso peso.

E in Italia che ruolo ricopre la “citizens lobby”?

La società civile italiana, così come la filantropia che in parte la sostiene, è particolarmente frammentata e poco avvezza a contribuire direttamente ai processi decisionali. Pur essendo incredibilmente attiva e indispensabile a sopperire alle necessità del territorio e ai bisogni che lo Stato non è in grado di assicurare, la società civile italiana – e ancora di meno i suoi cittadini – non sembra ancora pronta a incidere in maniera significativa sui processi decisionali. In questo senso, sembra mancarle la professionalizzazione necessaria e un approccio al cambio sistemico che si avvalga di strumenti di lobbying o di contenzioso strategico capaci di cambiare le regole del gioco. Per semplificare: invece di assistere un migrante, o una prostituta, sarebbe più strategico investire nella capacità di azione politica per cambiare il quadro normativo che impedisce a quel migrante o a quella prostituta di vivere meglio nella nostra società.

The Good Lobby Awards: ci può raccontare la storia di questo premio?

Perché è tanto importante assegnarlo? La idea sottostante al premio è celebrare quegli individui, quelle organizzazioni che praticano un lobbying inteso come partecipazione, e dunque sostenibile rispetto all’obiettivo di eguaglianza intergenerazionale. Ogni anno premiamo anche professionisti (accademici, avvocati, lobbisti, comunicatori) che decidono di prestare gratuitamente la loro opera per aiutare una “buona causa” che magari sia vicina alla loro sensibilità. Perché The Good Lobby si propone anche questo: di connettere esperti pro bono a cause sociali e civili portate avanti da cittadini, gruppi di attivisti, organizzazioni e comitati. Contribuendo in tal modo a professionalizzare l’impegno della società civile organizzata o spontanea. Il premio, che si tiene ogni anno a Bruxelles, ci permette di avere una fotografia dei movimenti sociali che agiscono all’interno dei confini europei. Una delle prima finaliste, quando ancora era sconosciuta ai più, fu Greta Thunberg che aveva appena cominciato a protestare davanti al Parlamento svedese contro il cambiamento climatico. Vincitore del premio miglior cittadino lobbista dell’anno dell’ultima edizione è l’italiano Sandro Esposito, premiato assieme a Timothée Galvaire e Tassos Papachristou per l’Iniziativa Cittadina Europea Fairosene, volta a rendere l’aviazione più sostenibile, tassando il carburante delle compagnie aeree e investendo le entrate fiscali nella mobilità verde. È italiano anche il terzo classificato nella stessa categoria, il progetto Never Give Up che si occupa di terapia e ricerca sui disturbi nutrizionali e alimentari, così come diversi candidati ai The Good Lobby Awards degli ultimi anni, fra i quali: Basta Vittime sulla statale 106, un’associazione di cittadini che si batte per la messa in sicurezza della SS 106 Jonica Calabrese, e Goel, la cooperativa sociale che sfida la mafia costruendo un’economia legittima basata su imprese sociali sostenibili ed eticamente gestite.

Che ruolo avrà la Citizen lobby nel futuro?

La crisi della rappresentanza, che si manifesta fondamentalmente dall’incapacità dei partiti tradizionali di rappresentare le istanze presenti nella società, porterà inevitabilmente alla creazione di gruppi, movimenti capaci di partecipare e, dunque, influenzare i decisori. Questi, fungendo da cinghie di trasmissione tra società ed eletti, permetteranno ai partiti di adattarsi a nuove forme di ascolto e attivazione, più consone a una società ove il monopolio dell’informazione è stato scardinato. Oggi il rappresentante ha bisogno di rimanere a contatto con la propria constituency molto di più’ di un tempo, per capirne le mutevoli esigenze, priorità e aspettative. Sono le lobby cittadine che saranno in grado di mantenere una rappresentanza capace di dare voce realmente alle sensibilità e ai punti di vista presenti sul territorio e nella società.

Futuro è una parola neutra. Come facciamo a riempirla di valore?

E come ci mettiamo d’accordo su un significato condiviso da dare a questo termine? Se il futuro è il possibile, la politica è l’arte del possibile. Di qui l’assenza di futuro e l’attuale sovraesposizione al presente. Spetta, in effetti, al processo politico elaborare, mettere a confronto – e dunque in competizione – diverse visioni di futuro. È esattamente ciò che la politica oggi non sembra in grado di generare, riducendo tutto solo a una competizione per il consenso, come la definì in maniera del tutto riduttiva ma, ahimè, preveggente Schumpeter. Soltanto nuove forme di partecipazione dal basso potranno riattivare l’immaginario collettivo, e co-creare insieme ai nostri rappresentanti nuove visioni di società oggi inimmaginabili. Questo processo deve e può essere accompagnato dalla filantropia italiana, la cui azione deve essere – in questo momento storico – improntata alla creazione di opportunità. È l’assenza di opportunità che ci impedisce persino di pensare al futuro nel nostro Paese. Per questo, dinanzi alle crescenti diseguaglianze socio-economiche e politiche attuali, la filantropia deve avere la capacità di stimolare all’azione politica, contribuendo a bilanciare le asimmetrie nell’accesso al processo politico – sia esso elettorale o partecipativo – al fine, da ultimo, di aiutare a generare e nutrire quel pluralismo oggi sempre meno presente. Questa la visione di società che persegue The Good Lobby in Italia, e tutta Europa

Dalla rivista Fondazioni settembre – ottobre 2020