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Smart working: l’occasione per ripensare la città del futuro | Marco Bentivogli

Intervista a Marco Bentivogli, attivista e esperto di innovazione e politiche del lavoro
per Fondazioni ottobre 2020

 

Attivista ed esperto di innovazione e politiche del lavoro, per anni segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli è un ottimo interlocutore per cominciare a parlare di futuro. Con lui ci siamo confrontati su come l’innovazione tecnologica stia rivoluzionando il mondo del lavoro, ma abbiamo parlato anche di ambiente, corpi intermedi e democrazia, ragionando su quale sia il futuro che abbiamo di fronte e su quali misure dobbiamo mettere in campo, perché questo porti benefici per tutti.

La pandemia sta costringendo moltissimi di noi a lavorare da casa. Lei, in più occasioni, ha ribadito che lo smart working, se ben inteso, può essere un’occasione per conciliare meglio vita e lavoro, per riprogettare e rigenerare le città. A suo avviso può essere una strada per ripensare i problemi delle aree interne e del Mezzogiorno?

Sì, perché non solo lo smart working è un alleato della sostenibilità ambientale e di città più verdi, ma può salvare le aree interne e le periferie dagli esodi verso il centro. Lo smart working è una grande occasione per ripensare le città, non solo sotto lo slogan “smart”, ma affinché diventino policentriche e verdi. L’esodo quotidiano aree interne-città e periferia-centro è assurdo, inquinante, antieconomico. Invece di invocare il ritorno al vecchio lavoro, bisogna ripensare le città: da anni le periferie sono sempre più morte, gli esercizi commerciali chiudono… Bisogna rivitalizzarle, lasciando lì il lavoro. Per questo, altro che rifugiarsi nella caverna casalinga: bisogna riutilizzare gli spazi lasciati vuoti, con degli SmartWorkHub, degli spazi dove avere postazioni confortevoli, con una buona connessione, un buon ristoro, qualche piccola sala riunioni o formazione. I figli dei nostri figli un giorno rideranno delle ore di traffico spese per recarsi sul luogo di lavoro.

Ha però individuato quattro ingredienti indispensabili perché lo smart working sia realmente efficace: libertà, autonomia, fiducia e responsabilità. Ci può spiegare cosa significa?

Quello che abbiamo visto durante la pandemia, salvo rari e virtuosi casi, non è smart working bensì telelavoro o lavoro da remoto. Lo smart working è piuttosto un lavoro per obiettivi che presuppone una radicale trasformazione del tempo e dello spazio e soprattutto un cambiamento culturale dell’azienda e dell’imprenditore che non fonda più il rapporto col dipendente sul controllo bensì sulla fiducia. Lo spiego nel mio libro edito da Rubbettino “Indipendenti”, una guida pratica allo smart working, dove si vede quanto la mancanza di autonomia soffochi produttività e benessere delle persone al lavoro. E – aggiungo – nel lavoro agile è ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento, con gli altri. Mi riferisco, piuttosto, a un salto di qualità dei processi di apprendimento: è chiaro ormai che le organizzazioni e le imprese che creano “dipendenze” sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo, avere lavoratori indipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale.

Nelle sue riflessioni è ricorrente il tema della formazione, a cui assegna un’importanza cruciale. Dal reskilling al lifelong learning, fino allo scarso investimento pubblico su orientamento scolastico e lavorativo, causa del fenomeno dello skill missmatch. Inoltre, le diverse forme di contenimento del contagio messe in campo per contrastare la pandemia rischiano di allargare le disuguaglianze nella nostra società e a pagarne il prezzo più grande sono troppo spesso i ragazzi. Perché la formazione riveste un ruolo cruciale?

Innanzi tutto, quando parliamo di formazione parliamo di una nuova tipologia di formazione che sia adattiva alle persone, creata sulle loro reali esigenze e attività svolte. Una nuova tipologia di formazione e adeguati piani di reskilling dovranno essere il cardine delle politiche pubbliche dei prossimi anni: è in questi ambiti che bisogna investire le risorse e creare specifici piani strategici; a ciò si dovrà accompagnare la capacità di saper “costruire”. Inoltre, “sedimentare” le competenze quando le aziende innovano: probabilmente dovrebbe essere questo il reale significato di “Industry 4.0”

In più occasioni ha auspicato la creazione di competence center che vadano a creare una rete italiana dei centri di eccellenza per l’innovazione. Perché è convinto che favorire la creazione di ecosistemi per l’innovazione, facendo incontrare università, imprese e territori, possa contribuire al rilancio dell’Italia?

Gli ecosistemi per l’innovazione sono fondamentali per colmare tutti i nostri deficit strutturali e una politica incapace di sfidare il capitalismo italiano. Una combinazione tra il Piano Amaldi sulla ricerca e il piano per un Fraunhofer Italia è quello che serve al Paese. Sono troppe le imprese piccole e piccolissime lasciate sole. Bisogna mettere insieme i due piani strategici: Francia e Germania hanno già queste infrastrutture. Guardate le somme che spenderanno oltralpe su intelligenza artificiale, cloud, big data e super computer. Il Piano Italia deve tener conto che si sta assottigliando il tessuto industriale e rischiamo di diventare un Paese unicamente fornitore di componentistica e beni intermedi.

Sviluppo sostenibile. È realmente possibile nel nostro Paese coniugare industria e ambiente?

Non solo è possibile ma è urgente e necessario coniugare quello che il filosofo Luciano Floridi ha definito il “verde e il blu”. Se pensiamo all’Ilva: è la più grande sfida europea di rilancio sostenibile della siderurgia ed è in Italia. Una sfida che il nostro Paese ha messo in secondo piano rispetto allo scontro tra partiti, procure e potentati locali, un binario morto. Non è solo intollerabile, ma rende tutti gli altri piani poco credibili.

Ha più volte richiamato il ruolo di protagonista che l’economia sociale può giocare per la ripartenza post pandemia. Può riassumerci il suo pensiero?

Sono convinto che la forza dei legami sociali rafforzi, a sua volta, il tessuto economico come si legge anche nella “Laudato si’” di Papa Francesco, dove emerge con forza una nuova visione del lavoro come luogo positivo in cui “fiorire”, espressione che mi ha colpito molto. L’Economia di Francesco è prima di tutto un’economia civile. È un messaggio dirompente, che supera la discussione tra mercatisti e antimercatisti per dire che ogni progetto umano deve avere l’uomo come fine e non come mezzo. Molte culture economiche leggono, invece, le disuguaglianze e il successo attraverso la chiave del determinismo economico.

Spesso collega i problemi della trasformazione del mondo del lavoro, delle giovani generazioni e della disoccupazione alla tenuta della democrazia. Qual è il nesso?

Il degrado ambientale, sociale e politico vanno di pari passo. Ma ragionare per ecosistemi correlati, per ecologie sociali e di vita quotidiana è una caratteristica assente nella politica, insieme alla cura delle ricchezze dell’umanità nel senso della pienezza umana. Nel mondo di oggi la vita è sempre più complessa, bisogna tradurre, semplificare, mettere in grado le persone di essere informate e di capire. E poi bisogna costruire pensieri lunghi, strategie che affrontino il setaccio del consenso. Se continuiamo a lasciare questo lavoro di semplificazione ai populisti la loro sarà banalizzazione utile alla ricerca del nemico sempre lontana dalle soluzioni, con pericolose implicazioni anche per la democrazia. Quale ruolo immagina nei prossimi decenni per i corpi intermedi, sindacati organizzazioni della società civile, fondazioni? Bisogna ricominciare a promuovere solidarietà, cooperazione e legami sociali. Ricostruire la comunità nazionale è fondamentale. Ritornare a vedere i partiti, il sindacato, le associazioni, le fondazioni come qualcosa in cui impegnarsi, dare una mano. Questo è anche il compito di “Base Italia”, l’associazione culturale che coordino. Recentemente ha scritto che il futuro è “visione e capacità progettuale”, che lo costruiamo con le nostre scelte e che tecnologia e innovazione sono le armi a nostra disposizione. Qual è la sua visione del futuro? L’accelerazione dell’automazione è un processo che per sua natura provoca timore, ma potrebbero esserne minimizzati gli impatti se venisse accompagnato da piani strategici ben definiti. Questa accelerazione andrà, innanzitutto, accompagnata da piani territoriali che tengano conto delle attività e delle caratteristiche produttive e lavorative di ciascuna regione. La ridefinizione del layout produttivo aziendale è un processo che richiede soprattutto il coinvolgimento dei lavoratori: pur riconoscendo, all’interno del percorso innovativo aziendale, il ruolo cruciale dei consulenti, la figura del lavoratore rimane di estrema rilevanza. È soltanto rendendo il lavoratore parte attiva del processo, che si promuove un reale percorso di innovazione e trasformazione delle aziende. È stata la stessa pandemia a fornirci degli spunti di azione: da una parte, ripensare l’organizzazione del lavoro e rivedere la supply chain, rendendola il meno possibile dipendente dai fornitori esteri; dall’altra, riformulare gli attuali processi produttivi in chiave 4.0 (ad esempio utilizzando la blockchain per tracciare le filiere produttive, la loro sostenibilità ed eticità)

Dalla rivista Fondazioni: settembre – ottobre 2020