Intervista ad Antonio Russo, Portavoce dell’Alleanza contro la povertà
Un italiano su dieci oggi in Italia vive in condizioni di povertà assoluta (e un altro rischia in breve di raggiungerlo). Il dato è raddoppiato nell’ultimo decennio. Non si tratta più di una tendenza preoccupante, ma di una vera e propria emergenza che si è ormai cronicizzata. Lo dice chiaramente Antonio Russo, portavoce dell’Alleanza contro la Povertà, una cordata che riunisce le principali organizzazioni del Terzo settore italiano per accendere i riflettori su questo tema e chiedere un welfare più equo, sostegni universali indicizzati, servizi sociali forti e politiche preventive per interrompere il ciclo intergenerazionale. Perché inflazione, salari stagnanti e precarietà lavorativa rendono vulnerabili anche le famiglie con lavoro e la povertà diffusa rischia di minare le fondamenta del sistema democratico.
Quando parliamo di povertà, di che cosa stiamo parlando?
Ci riferiamo a un fenomeno che non è più marginale, ma che tocca milioni di persone. Oggi in Italia ci sono circa sei milioni di poveri assoluti, cioè due milioni e duecentomila famiglie che non riescono a garantire neanche i beni e i servizi indispensabili per una vita dignitosa. Si tratta di un italiano su dieci! A questi si aggiungono oltre cinque milioni di poveri relativi, che vivono una condizione di forte deprivazione rispetto alla media. Ma la povertà non si misura solo con il reddito: esistono tante altre forme, come quella alimentare, sanitaria, energetica, educativa e abitativa. Tra tutte, la più dolorosa è quella minorile: un milione e trecentomila bambini che crescono senza una nutrizione adeguata, senza cure tempestive, senza opportunità educative e culturali. È una condizione che compromette il presente e rischia di generare cittadini dimezzati domani.
Perché considera questa una situazione emergenziale?
Perché scivolare nella povertà oggi è molto più facile che in passato. L’inflazione, che colpisce in modo particolare i beni primari, ha eroso salari fermi da oltre dieci anni. Gli stipendi medi non sono cresciuti, mentre affitti, bollette e generi alimentari hanno registrato aumenti costanti. In altri Paesi europei i salari sono stati indicizzati, in Italia no. Il risultato è che le famiglie, che fino a poco tempo fa si sentivano al sicuro, oggi si trovano improvvisamente in difficoltà. A questo si aggiunge la precarietà lavorativa: tre milioni di persone, pur lavorando, non raggiungono un reddito sufficiente. Si può guadagnare milletrecento euro al mese e, con una famiglia, ritrovarsi comunque sotto la soglia di povertà assoluta. È una fragilità diffusa che ha assunto carattere strutturale.
“La più dolorosa è la povertà minorile: un milione e trecentomila bambini che crescono senza una nutrizione adeguata, senza cure tempestive, senza opportunità educative e culturali; è una condizione che compromette il presente e rischia di generare cittadini dimezzati domani”
Quali sono le cause della crescita della povertà nel nostro Paese?
Innanzitutto, la crisi del sistema di welfare. Ci sono sempre stati punti di debolezza, ma nell’ultimo decennio la situazione è peggiorata. Scontiamo la cronica riduzione di risorse a fronte della crescita della domanda. Inoltre, il welfare è diseguale: i servizi sociali e sanitari di una regione del Nord non sono paragonabili a quelli di molte aree del Sud. Questo genera disuguaglianze territoriali enormi, che diventano disuguaglianze di opportunità. A questo dobbiamo aggiungere che il potere d’acquisto degli italiani è rimasto fermo, mentre altrove in Europa è stato protetto. È cresciuta la precarietà e si sono moltiplicati i working poor. E, infine, c’è la “glaciazione” demografica: siamo il secondo Paese più vecchio del mondo e ogni anno circa 30mila giovani emigrano. Tutti elementi che, combinati, rendono più fragile la nostra società.
In che modo le ultime riforme hanno inciso?
Con la legge 85 del 2023, che ha abolito il Reddito di cittadinanza, si è perso l’ultimo strumento universalistico. Si è tornati a una logica “categoriale”: sotto i 18 anni una regola, tra i 18 e i 59 un’altra, sopra i 60 un’altra ancora. Ma la povertà non conosce categorie. Inoltre le risorse si sono ridotte: dagli 8,8 miliardi dell’ultima annualità del Reddito si è passati a 7,1 miliardi. È un arretramento evidente, che lascia fuori una parte della popolazione povera. Lo confermano i dati: ci sono famiglie che prima ricevevano un sostegno e oggi non hanno più nulla.
Dobbiamo iniziare a parlare di “povertà ereditaria”?
Nel dopoguerra chi nasceva in una famiglia povera poteva sperare di riscattarsi. Oggi non è più così: la povertà tende a trasmettersi da una generazione all’altra. I bambini che crescono senza istruzione di qualità, nutrizione adeguata, possibilità di fare sport o vivere esperienze formative avranno meno strumenti per emanciparsi. La povertà educativa diventa bassa occupabilità, e la bassa occupabilità si traduce in povertà economica. È un ciclo che si autoalimenta e che rischia di fissarsi stabilmente.
“La povertà riduce la partecipazione civica. Chi deve correre da un lavoro all’altro per mettere insieme uno stipendio non ha tempo ed energie per seguire la politica, partecipare a un’assemblea, fare volontariato o impegnarsi nella vita della comunità”
Quali sono le conseguenze sulla vita democratica?
La povertà riduce la partecipazione civica. Chi deve correre da un lavoro all’altro per mettere insieme uno stipendio non ha tempo ed energie per seguire la politica, partecipare a un’assemblea, fare volontariato o impegnarsi nella vita della comunità. La partecipazione diventa un “lusso” e così cresce la distanza tra cittadini e istituzioni. Inoltre, quando la povertà si cronicizza, aumenta anche la sfiducia nella politica, che appare incapace di rispondere ai bisogni reali. Tutto questo finisce per minare la coesione sociale e la qualità della nostra democrazia.
C’è anche un problema culturale?
Sì, ed è molto serio. Si è diffusa una narrazione che colpevolizza i poveri, come se la loro condizione fosse una colpa personale. È un’idea sbagliata e pericolosa. Si tratta di famiglie che lavorano e si fanno in quattro, eppure non riescono a pagare l’affitto o a fare la spesa. Bisogna combattere lo stigma, perché la vergogna e l’isolamento peggiorano ulteriormente le condizioni di vita e impediscono di chiedere aiuto.
In questo scenario, qual è il ruolo del Terzo settore?
Il Terzo settore è fondamentale, ma non può essere ridotto a un semplice fornitore di servizi in supplenza dello Stato. Certo, svolge un ruolo prezioso nell’erogazione di aiuti immediati, dall’assistenza alimentare ai servizi educativi. La recente riforma del Terzo settore apre una stagione nuova di coprogettazione e coprogrammazione, che se sapremo coglierne appieno tutte le opportunità, ci fa ben sperare. Ma la missione del Terzo settore va oltre: si tratta anche di un soggetto politico, capace di rivendicare diritti, di denunciare le disuguaglianze, di costruire un’opinione pubblica consapevole. È una dimensione di cittadinanza attiva che arricchisce la democrazia e costringe le istituzioni a non girarsi dall’altra parte.
“La missione del Terzo settore va oltre: si tratta anche di un soggetto politico, capace di rivendicare diritti, denunciare le disuguaglianze, costruire un’opinione pubblica consapevole; è una dimensione di cittadinanza attiva che arricchisce la democrazia e costringe le istituzioni a non girarsi dall’altra parte”
Quali sono le proposte dell’Alleanza contro la povertà?
Le nostre proposte partono da un punto fermo: la povertà non è una colpa, è una condizione da affrontare con strumenti giusti. È necessario, quindi, superare la logica categoriale della legge 85 e tornare a un principio universalistico. Inoltre, indicizzare i benefici all’inflazione, altrimenti il loro valore reale cala di anno in anno. Serve poi rafforzare i servizi sociali territoriali, che oggi sono fragili e diseguali, garantendo livelli essenziali delle prestazioni in tutto il Paese. Quindi, si devono integrare i sostegni con il reddito da lavoro, permettendo alle persone di accettare un’occupazione senza perdere subito ogni aiuto. Infine, dobbiamo aprire un tavolo permanente sulla povertà, con tutte le forze politiche, per dare continuità alle misure e non procedere a colpi di spot.
Dalla rivista Fondazioni luglio-settembre 2025