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Chiamiamola cocreazione | Agostino Riitano

Intervista ad Agostino Riitano, project manager e artigiano dell’immaginario

Con innumerevoli esperienze di management culturale – è stato project manager supervisor di Matera Capitale europea della cultura 2019, direttore di Procida Capitale italiana della cultura 2022 e Pesaro Capitale italiana della cultura 2024 – Agostino Riitano si definisce “artigiano dell’immaginario”. Come si legge nella sua omonima pubblicazione (Mimesis Edizioni, 2019): «Gli artigiani dell’immaginario che conosco si sono tutti messi al lavoro per modificare questo mondo, tenendo presente che i cittadini, anche i più piccoli o deboli “devono poter usare la città, perché nessuna città è governabile se i cittadini non la sentono propria”». Per questo numero sul tema della partecipazione culturale non potevamo non intervistarlo.

Come definisce la partecipazione culturale?

Il tema della partecipazione culturale è molto ampio e complesso. Dal mio punto di vista non può esserci partecipazione senza tre dimensioni valoriali. La prima riguarda il credere nella potenza dell’intelligenza collettiva, senza diffidare delle differenze. Il secondo valore è la responsabilità del far bene. In italiano esiste un’espressione esemplare: “fare a regola d’arte”, dove l’elemento valoriale del fare è il bene, dunque il bene è anteposto al fare. Infine, credere che cooperare è meglio che competere; mettiamo un punto all’epoca della competizione per augurare quella della cooperazione. Sulla base di queste tre dimensioni, dal mio punto di vista, l’accezione più significativa non è quella della partecipazione ma della cocreazione al fatto culturale.

Che cosa si intende per cocreazione?

Nella cocreazione si avvia un processo di cogenerazione nel quale il pubblico non solo fruisce del fatto culturale ma, al tempo stesso, lo crea.  Questa doppia possibilità, di essere pubblico e attore, rimanda alla rivoluzione del teatro del Novecento, quando è stata abbattuta la quarta parete. Anche nella partecipazione culturale bisognerebbe abbattere la quarta parete, quindi invitare la cittadinanza a farsi protagonista del fatto culturale. In questo modo non si è soltanto cittadini ma si diventa cittadini culturali, contribuendo, ciascuno con i propri mezzi, ai processi culturali e quindi al rafforzamento del senso comune. L’essenza della cultura è una questione di legami e, dunque, la partecipazione è parte integrante del processo culturale perché partecipando contribuiamo a costruire e rafforzare i legami. La cultura, quindi, non è una mera questione di intrattenimento ma è la capacità di includere e di risemantizzare le reti di relazioni, proiettandosi in un futuro dove il protagonismo dell’individuo è inserito in una dinamica comunitaria.

Nella partecipazione culturale bisognerebbe abbattere la quarta parete, invitare la cittadinanza a farsi protagonista del fatto culturale. In questo modo non si è soltanto cittadini ma si diventa cittadini culturali”

In che modo si avvia questa tipologia di processi?

Con un mestiere che io ho chiamato “artigiano dell’immaginario”: una capacità ibrida di riuscire a tenere insieme la dimensione dell’artigianato e quella dell’immaginario. Dall’idea che proponeva Richard Sennet, l’artigiano, oltre alla materia, ha costantemente a che fare con la difficoltà, alla quale si adatta, svelandone nuove nature. Lo stare con serenità dentro la dinamica del problema, quindi della soluzione, deve essere accompagnato da una dimensione immateriale, l’immaginario. Un collante cognitivo che arriva laddove il pensiero razionale, del rapporto causa-effetto, incontra dei limiti. Anche le scienze “dure” attivano l’immaginario nei laboratori. L’artigiano dell’immaginario, dunque, localizza e sta nei problemi e, con un atto di presunzione e di immaginazione, assembla tutta la materia e si impegna affinché la questione e la soluzione diventino collettive. Il fine ultimo è quindi migliorare le relazioni culturali e politiche tra cittadini affinché possano concretizzare delle risposte e delle soluzioni a bisogni o mancanze.

Non si tratta di utopie?

Se è vero che l’utopia ci aiuta a camminare è vero anche che la capacità di “situare” l’utopia ci aiuta a cambiare. Quando sono innescati, questi processi danno la possibilità di rendere tutte le persone che partecipano necessarie e ci si stupisce come, con questo atto di fiducia, emergano inaspettate competenze, sensibilità, capacità creative e operative. Ma tutto questo discorso esiste perché parte dalla pratica, non si tratta di speculazione accademica ma di un distillato di esperienze, anche fallimentari. Se adottiamo l’immaginario come pratica artigianale, infatti, bisogna fare i conti con l’errore e con il fallimento. «Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio.», scriveva Samuel Beckett in Molloy. Mi piace citare queste parole perché non credo solamente che “sbagliando s’impari”, come dice il detto, ma è importante imparare a sbagliare e, soprattutto, insegnare a farlo. In questo senso la partecipazione culturale è costosa, si dirama in percorsi rischiosi e faticosi perché producono accadimenti imprevisti che bisogna saper gestire e nei quali è importante cogliere degli elementi chiave per proseguire.  Per questo è necessaria la figura dell’artigiano dell’immaginario, per il quale lo spazio non è solo quello geografico ma diventa uno spazio invisibile di saperi, conoscenze e possibilità.

“L’artigiano dell’immaginario localizza e sta nei problemi e, con un atto di presunzione e di immaginazione, assembla tutta la materia e si impegna affinché la questione e la soluzione diventino collettive”

Tra i numerosi percorsi da lei animati, il progetto Abitare l’Opera ci ha particolarmente colpiti, ce lo può raccontare?

Prima ancora che culturale, questo è stato un progetto di ricomposizione civile. Il progetto Abitare l’Opera rientrava nel dossier per la presentazione della domanda di partecipazione Matera capitale europea della cultura 2019, dove ho partecipato come project manager supervisor. Ci siamo chiesti se potesse essere possibile mettere mano a una delle strutture più radicate e importanti del paese, quella dell’opera lirica. Credendo e dando fiducia alla scena creativa materana, abbiamo immaginato anche l’opera come processo di cocreazione. Il Teatro San Carlo ha accettato la sfida e, con la regia del maestro Giorgio Barberio Corsetti, è stata messa in scena “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni tra i sassi di Matera, con la partecipazione dei cittadini non solo come spettatori ma anche nel ruolo di cocreatori della scrittura drammaturgica, coristi, attori e soggetti presenti in scena. Abbiamo sperimentato la dimensione della partecipazione in una tradizione molto forte e radicata della cultura italiana. In questo progetto la città di Matera non era solo una “location” o uno sfondo scenografico, ma è diventata luogo, dove i cittadini hanno partecipato al processo creativo.  E non è stata solo un’esplosione di arte e bellezza ma anche di metodo, principi, lavoro, prospettiva e immaginario. Un connubio che io chiamo, appunto, cocreazione.

Dalla rivista Fondazioni luglio – settembre 2023