Gilberto Muraro, presidente della Fondazione Cariparo, membro del Comitato esecutivo di Acri e professore emerito di Scienza delle Finanze presso l’Università degli Studi di Padova, recentemente ha scritto l’articolo “Einaudi e le disuguaglianze sociali” pubblicato all’interno di un numero speciale che la rivista Libro Aperto ha dedicato a Luigi Einaudi, in occasione del sessantesimo anniversario della morte. L’abbiamo intervistato per Dialoghi sull’Uguaglianza.
Presidente, dal 1949 a oggi il mondo e il nostro Paese sono radicalmente cambiati. Ritiene che le “Lezioni di politica sociale” di Luigi Einaudi siano ancora attuali?
Nelle sue “Lezioni di politica sociale”, pubblicate nel 1949, Einaudi riflette sui contenuti e gli effetti dei principi dello Stato liberale: uguaglianza, responsabilità individuale, famiglia, solidarietà, merito. Credo che siano riflessioni di validità perenne, comunque muti lo scenario economico.
Quando si parla di disuguaglianze, uno degli aspetti ricorrenti è la crescita, negli ultimi vent’anni, del divario in termini di reddito tra una ristretta minoranza della popolazione mondiale, che lo ha visto crescere in maniera considerevole, e una grande maggioranza, che è rimasta stabile o si è, addirittura, impoverita. Quello che aumenta è il divario tra i due gruppi. Inoltre, c’è un tema di “ereditarietà” della disuguaglianza. Einaudi si è posto il problema e ha proposto una soluzione nella leva fiscale. Ci può illustrare il suo pensiero?
Einaudi era molto sensibile al tema della disparità dei punti di partenza, che intaccava la credibilità del mercato concorrenziale come meccanismo meritocratico. Disprezzava la ricchezza non guadagnata e soprattutto soffriva per la povertà minorile. Nell’impossibilità dei giovani di realizzare i propri talenti vedeva un’offesa morale nonché un danno generale sotto forma di una crescita economica e culturale della società inferiore a quella potenziale. Da qui la sua adesione all’idea di aggiungere alla normale imposta sulle successioni e donazioni, di peso moderato, ma non irrilevante, una vera imposta confiscatrice sulle grandi eredità. Facendo propria la proposta avanzata da Eugenio Rignano nel 1901, egli auspicava il seguente prelievo intergenerazionale: il padre, autore della forte accumulazione, passa l’eredità al figlio senza decurtazione; ma nel passaggio dal figlio al nipote, lo Stato preleva un terzo dell’ eredità ricevuta e altrettanto preleva nei due successivi passaggi ereditari, così avocando a sé nell’arco di tre successive generazioni l’intera eredità originaria, mentre lascia esente ad ogni passaggio l’eventuale ulteriore ricchezza accumulata e lasciata dall’erede. In questo modo, resta lo stimolo all’accumulazione che deriva dalla possibilità di trasmissione ereditaria, come postula il pensiero liberale, ma nel lungo periodo resta privata solo la nuova ricchezza prodotta.
Un’altra chiave individuata da Einaudi per contrastare le disuguaglianze è il welfare (“l’estensione dei servizi pubblici gratuiti”). Cosa prevedeva nel dettaglio? I suoi auspici si sono realizzati nel corso della storia repubblicana? La conclamata crisi dello stato sociale, che registriamo da oltre un ventennio, come si relaziona con la visione einaudiana su tema?
Einaudi sapeva bene che l’uguaglianza dei punti di partenza rappresentava un ideale non raggiungibile e che l’imposizione tributaria, anche se rafforzata nella sua capacità ridistributiva da un’imposta progressiva, non poteva garantire che ognuno potesse partecipare senza insuperabili handicap alla corsa della vita. Da questo punto di vista era fondamentale la politica della spesa pubblica. Senza dilungarsi in esempi, basterà dire che egli era affascinato dal Piano Beveridge del 1942, il noto modello inglese di assistenza, universalistica e integrale, che sta alla base del Welfare State poi realizzatosi in vari modi in tutta l’Europa occidentale. Anche perché tale modello, nella sua formulazione teorica, non toglieva gli incentivi al lavoro e al risparmio individuale, connaturati alla visione liberale di Einaudi. In effetti il Welfare State segnò il periodo d’oro dell’economia di mercato, che nei primi decenni del secondo dopoguerra si dimostrò capace di diffondere la ricchezza, oltre che di accrescerla. Si sa che anche il Welfare State entrò in crisi alla fine degli anni Settanta, a causa dell’inefficienza del vasto apparato pubblico da esso creato e soprattutto della pesante pressione tributaria necessaria ad alimentarlo. Credo che Einaudi sarebbe stato un giudice severo delle debolezze del Welfare State maturo, senza cadere tuttavia nel neoliberismo sregolato che ne seguì e che portò alla crisi finanziaria del 2008. Per lui, infatti, un mercato efficiente postulava libertà degli operatori economici ma entro un attento sistema di regole e controlli.
Nel suo articolo propone un interessante collegamento tra il pensiero di Einaudi e quello di Amartya Sen. Può illustrarcelo?
Nell’affrontare il tema del “minimo di esistenza generalizzato”, Einaudi invitava a ragionare in termini di punti di partenza e non di arrivo: nelle sue parole testuali, si tratta di dare un sostegno a tutti “perché tutti possano sviluppare le loro attitudini”. Mi sembra davvero che Einaudi anticipi di molti anni il noto pensiero di Amartya Sen, che invoca un welfare centrato sulle capabilities, ossia sulle potenzialità operative intese come il prodotto di dotazioni iniziali di cure e conoscenze con opportunità di utilizzarle.
Un ulteriore focus del pensiero einaudiano è dedicato alla “disuguaglianza dei punti di partenza” e al ruolo determinante che può svolgere l’effettiva realizzazione del diritto allo studio nel contribuire a risanare una disparità che può segnare in maniera determinante la vita delle persone. Si tratta di un tema su cui le Fondazioni di origine bancaria stanno puntando molto in questi anni. Cosa ne pensa?
Nell’ambito della spesa sociale Einaudi poneva al primo posto gli interventi pubblici volti a garantire il diritto allo studio proprio per ridurre l’impatto di tale disuguaglianza. Sono certo che sarebbe turbato e scandalizzato nel vedere che l’Italia di oggi, che è pur sempre un paese ricco, presenta ancora un diffuso problema di povertà educativa minorile. Non mancherebbe quindi il suo elogio per lo sforzo che da anni le Fondazioni stanno attuando, insieme allo Stato, contro questa intollerabile piaga che ruba il futuro ai giovani.
Foto copertina: Archivio del Quirinale