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Costruiamo palestre di uguaglianza | Christian Raimo

Christian Raimo è un insegnante, scrittore, giornalista culturale, editor e assessore alla cultura del III municipio di Roma. Proprio nel III municipio ha lanciato il progetto “Grande come una città” per promuovere l’incontro fra le persone e creare luoghi e momenti di confronto nella condivisione di valori come inclusione, nonviolenza, antifascismo. Da sempre si impegna nel contrasto alle disuguaglianze perché “è compito della Repubblica, cioè nostro”, come aveva detto in una sua Ted Talk analizzando l’articolo 3 della nostra costituzione. Lo fa con progetti come Base Camp e Maturadio per contrastare la povertà educativa perché, ci dice, “la scuola è l’ultimo baluardo sociale nel contrasto alle disuguaglianze”.

 Christian Raimo, cosa è per lei l’Uguaglianza e come è cambiato il discorso sulle disuguaglianze nel tempo?

È una domanda davvero complessa… Parto da un aneddoto: quando ero ragazzino in televisione c’era un programma televisivo che si chiamava “Test – Gioco per conoscersi” in cui si facevano test a sfondo psicologico e dopo un po’ che lo guardavo avevo capito come rispondere bene alle domande per fare il punteggio massimo. Una volta il test era “Sei generoso? ” e io, che avevo capito il meccanismo, ottenni un risultato alto, 90 su 100 mi sembra. La mattina dopo mi sono svegliato presto, prima di mia sorella che dormiva sempre più di me. Mia nonna ci preparava le fette biscottate con la marmellata per colazione e io quella mattina ho mangiato anche quelle di mia sorella. Lei si è svegliata e non le ha trovate, così nonna mi fece notare che potevo anche aver fatto 90 su 100 al test sulla generosità ma comunque avevo mangiato anche la colazione di mia sorella. Dal test risultavo generoso ma nella pratica non lo ero stato.

Racconto questa storia perché io sono convinto di una cosa: in Italia abbiamo avuto il socialismo, il cristianesimo sociale e il liberalismo di matrice democratica che sono state tre grandi ideologie che hanno messo al centro l’educazione pratica all’uguaglianza. Insieme a queste ideologie si sono sviluppate delle retoriche che hanno trattato il tema dell’uguaglianza, ci sono stati dei grandi maestri di uguaglianza e delle grandi palestre di uguaglianza: le parrocchie, i partiti, i sindacati, le scuole le università.  Ad un certo punto questa linea si è interrotta e non solo sono aumentate le forme di disuguaglianza ma sono aumentate in maniera esponenziale anche le retoriche della disuguaglianza, o meglio, è avvenuta una mifisticazione di uguaglianza. Si è cominciato a parlare di meritocrazia di omologazione al basso, di eccellenza e questa cosa ha avuto un impatto terrificante nelle agenzie formative dell’uguaglianza. Ad un certo punto quello che avveniva nel mercato è cominciato ad registrarsi anche nelle palestre dell’uguaglianza, ci si divideva sempre fra chi aveva la versione base e chi la versione premium, fra chi eccelleva e chi no, fra chi poteva essere selezionato per fare qualcosa e chi no.

Concentriamoci sulla scuola, secondo lei che ruolo ricopre nel contrasto alle disuguaglianze? 

La scuola è l’ultimo baluardo sociale del contrasto alle disuguaglianze. Non ci sono stati grandi investimenti sulle politiche all’istruzione negli ultimi anni, anzi, ci sono stati tagli feroci. Nonostante questo però la scuola ancora assolve a quell’idea che tu e il tuo compagno di banco avete gli stessi diritti e gli stessi doveri. Che tu sia maschio, femmina, straniero, potete riuscire, cooperando, a emanciparvi insieme. D’altra parte però c’è una forza opposta, come dicevo, soprattutto con le riforme dell’istruzione che puntano a un’idea di scuola che invece riproduce, crea ex novo e valorizza le disuguaglianze. Riprendiamo il concetto di eccellenza e meritocrazia, nella maggior parte degli studenti che conosco ha prodotto un sentimento comune, un’ansia da prestazione che si esprime in una frase generazionale che è: “E se non ce la faccio?” Loro si sentono dire tutti i giorni “Primeggia, eccelli” ma dentro di loro borbottano continuamente “E se sono io quello escluso? Bella l’eccellenza ma se non sono io eccellente? Meravigliosa la meritocrazia ma se io non sono meritevole? Grandioso Premium ma se non me lo posso permettere?”. Prendiamo le ripetizioni private e la mancanza dei corsi di recupero, per me sono il più grande meccanismo di valorizzazione di disuguaglianze della scuola italiana. Un ragazzo su due alle superiori prende ripetizioni ed uno su sei alle medie, e chi non può permetterselo?

Oltre alla scuola lei ha spesso parlato di Teatri e Biblioteche come luoghi essenziali su un territorio, può dirci perché?

Teatri e biblioteche sono grandissime palestre di uguaglianza. Il libro di Antonella Agnoli “Le piazze del sapere” mostra come le biblioteche siano l’unico luogo della città dove possono entrare davvero tutti, può entrare un bambino di un anno e un senza tetto di 95, un medico e un poliziotto, chiunque può entrare in biblioteca. Questi sono luoghi dove si discute su come possiamo crescere come cittadinanza e mettere in atto quel articolo 3 che crede che la disuguaglianza sia quell’ostacolo fondamentale al pieno sviluppo della persona.

Fabrizio Barca nel suo dialogo con Antonio Calabrò ha detto che il Sud va visto come “quel luogo d’Italia dove le contraddizioni che sono comuni a tutto il resto del paese hanno conseguenze più pesanti”. Questo sembra valere anche per le periferie e per le aree interne, da dove si parte per combattere le disuguaglianze in questi luoghi?

Bisogna imparare da quello che nel nostro paese è già stato fatto, ma non solo in relazione al Sud o alle periferie. L’Italia è stato un Paese di partiti ma anche di associazioni e di minoranze pensose che hanno immaginato in tanti modi diversi cosa potesse voler dire “il potere democratico delle comunità”. Io sto studiando cosa è avvenuto dopo la guerra in questo senso, dall’UDI al Movimento di Cooperazione educativa, dai Cepas ai Centri di orientamento sociali fino all’esperienza di Danilo Dolci in tutto il Sud. C’è un’idea di socialismo comunitario che però valorizza l’individuo, riesce a mettere insieme individuo e comunità seguendo una grande tradizione sia teorica che politica in Italia. Noi raccontiamo la storia dei partiti, delle istituzioni e dei governi, mentre io penso che sia fondamentale raccontare le esperienze di minoranze pensose. Da quelle esperienze sono venute le riforme più interessanti, la Legge Basaglia, la scuola media unica, i decreti delegati, lo statuto dei lavoratori, poi chiaramente i partiti hanno fatto da moltiplicatori di queste esperienze. Poi bisogna legittimarle rafforzando l’idea che la cooperazione debba essere il centro della crescita democratica del Paese. C’è un bellissimo libro che si chiama “Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione” di Pëtr Alekseevi? Kropotkin; è una storia che racconta di come si possano trovare esempi di mutuo appoggio che servono a sviluppare le nostre società, dalle comunità di animali piccolissimi fino alle società più organizzate. Abbiamo bisogno di questo mutuo appoggio per contrastare in maniera efficace le disuguaglianze, nel Sud e ovunque.

Il 2020 è stato l’anno dell’emergenza Coronavirus ed è stato detto che la pandemia ci avrebbe reso migliori e più attenti al prossimo, secondo lei è successo?

No, non è successo. Non è successo e non sta succedendo, se non in minima parte in quelle comunità dal basso che si creano nei momenti di necessità. Per esempio nella scuola si sono formate quelle comunità educanti che evochiamo spesso, genitori insegnanti e ragazzi si sono uniti ma in realtà abbiamo soprattutto constatato il contrario.

Abbiamo capito che l’unico modo per contrastare la pandemia è coordinare le politiche. C’è bisogno anche in questo caso di mutuo aiuto perché quello che accade qui oggi accade poi fra una settimana da un’altra parte. Però non abbiamo imparato. Certo, il Recovery Fund è una scommessa su quello che può essere l’Europa ma quella scommessa è minata da egoismi personali, tornaconti e via dicendo. Credo che ci sia una spiegazione a questo, se riprendiamo “La nuova ragione del mondo” di Laval e Dardot gli autori sostengono che l’idea neoliberista non sia soltanto un’idea che è diventata pervasiva, ma che ha anche un fascino molto forte al quale non si oppone una cultura politica altrettanto affascinante. Questo si sottovaluta molto, il neoliberismo fa male, Trump e Bolsonaro sono le manifestazioni più evidenti, ma nonostante questo non c’è un’alternativa che sia affascinante.

Neanche negli ultimi anni con le battaglie sul clima o sociali come il movimento Black Lives Matter?

Nell’ultimo anno ci sono state delle proteste più “affascinanti”, ma serve qualcosa di strutturale. Spesso si pensa a come le società cambino i sistemi educativi ma non si pensa a come i sistemi educativi cambino le società. Il sistema educativo di oggi è per certi versi identico a quello che c’era con Crispi e sotto il fascismo. Aule, discipline, voti, interrogazioni, primi della classe eccetera, sono sistemi che si sono allargati e sono diventati più inclusivi ma non c’è stato un ripensamento del sistema pedagogico. I sistemi educativi producono i sistemi sociali, non il contrario. Per questo porto avanti la battaglia sull’educazione. Le classi laboratorio, l’interdisciplinarietà, la formazione degli insegnanti sono elementi fondamentali per avere società diverse, associazioni diverse, partiti diversi.

Nel portare avanti questa battaglia lei ha lanciato vari progetti, ce ne può raccontare qualcuno?

Ne racconto brevemente tre, ma parto da un presupposto fondamentale: io credo che sia vitale fare politica e avere delle idee, soprattutto su come ci si organizza per allargare ed aumentare la cultura politica della maggior parte delle persone. Su questo l’ispirazione fondamentale ce l’hanno avuta grandissimi politici ed intellettuali italiani, Basaglia, Olivetti, Capitini, Danilo Dolci, sono figure che hanno pensato che l’organizzazione delle comunità comprendesse anche un’idea di educazione delle comunità, di pedagogia popolare. I progetti Basecamp, Maturadio e Grande come una città rispondono alla stessa logica e hanno la stessa ambizione, cioè pensare che la pedagogia popolare possa essere la chiave per lavorare all’organizzazione di associazioni, scuole, comunità. In Grande come una città ci siamo chiesti: come si può far lavorare una comunità insieme alla politica del municipio? Partendo dall’autoformazione, lavorando, pensando alla formazione, pensandosi come una politica del pensare. Serve una cultura politica? Come la costruisco? Devo studiare e allora la risposta sta in una comunità che studia insieme. La stessa cosa accade con Basecamp che è un progetto di contrasto alle disuguaglianze formative per ragazzi dai 13 ai 16 anni e che si svolge in tre scuole diverse a Roma, Napoli e Palermo, mettendo insieme un’associazione di insegnanti, Laudes, e le rispettive comunità scolastiche. Infine Maturadio è un progetto destinato ai maturandi di questo 2020 e consiste in lezioni virtuali scritto da insegnanti e raccontati da attori. In qualche modo è una estensione del progetto Basecamp con l’idea che la stessa cosa possa avvenire anche attraverso dei podcast in una comunità virtuale, aggiungendo alle comunità educative le comunità artistiche. Essere cittadino per me vuol dire essere educatore ed essere educatore vuol dire anche imparare. Il modo migliore per imparare è insegnare, il modo migliore per insegnare è imparare.