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Diversity management | Maria Ida Germontani

Cosa significa “uguaglianza”?
Prima di tutto è necessaria una distinzione strettamente giuridica. Per uguaglianza formale si intende l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Non a caso le Aule dei nostri tribunali riportano alle spalle della Corte: “La legge è uguale per tutti”. Ovvero la legge non deve operare discriminazioni di razza, di sesso, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Per uguaglianza sostanziale, sempre secondo l’art.3 della Costituzione, si intende l’uguaglianza di fatto dei cittadini, e si affida allo Stato il compito e l’impegno di crearne le condizioni, rimuovendo le diseguaglianze. Il “pieno sviluppo della persona umana”, citato all’articolo 3, ricorda in qualche modo la famosa formula della “ricerca della felicità” contenuta nella Costituzione americana che prevede, da parte dello Stato, l’impegno affinché tutti i cittadini abbiano la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni. Forse, come per molte valutazioni, la strada giusta è nel mezzo e, più che rispondere ad una definizione di uguaglianza etimologicamente concepita, personalmente preferisco richiamare ciò che di fatto dovrebbe caratterizzare una società democratica: le pari opportunità. Come diceva Michael Novak, il fondamento di un sistema democratico non sta nel garantire uguali risultati, che corrispondono spesso all’appiattimento di certi sistemi totalitari, ma nell’offrire pari opportunità ab origine per tutti i cittadini.

Quali sono le sfide più importanti da affrontare in Italia per contrastare le disuguaglianze?
La più grande sfida oggi, ancora aperta, è sicuramente quella tra liberismo selvaggio e statalismo burocratico. Vale la pena ricordare ancora Michael Novak, filosofo, economista, già consigliere del Presidente Reagan. Novak ha recuperato il valore etico e religioso del capitalismo per i liberali e per i cattolici e ha identificato un percorso sociale per la crescita economica, non più in ragione del tornaconto personale del singolo imprenditore, ma a vantaggio della collettività con il recupero di valori di solidarietà e di umanità, oltreché di diffuso benessere. Non a caso Michael Novak ebbe un esordio politico di sinistra che seppe sviluppare a destra. Ne è un esempio chiaro il suo libro “Writing from left to right”, anticipando in qualche modo il capitalismo successivo, cioè “Compassionevole” di George W. Bush. In Italia, combattere le disuguaglianze significa sicuramente ripartire dal sistema socio economico, consentendo alle imprese di lavorare e produrre ricchezza, quale riconosciuto vantaggio per l’imprenditore e per l’intera collettività. La detassazione del lavoro è un altro tassello fondamentale, forse la vera sfida, un ponte per il superamento delle disuguaglianze interne e quelle esterne, nel confronto con gli altri Paesi. Rispondere a queste “urgenze” rappresenta oggi un dovere assoluto per la politica, dal quale non ci si può più sottrarre. In un contesto politico-sociale di progresso e di democrazia, tipico di una società plurale come la nostra, eliminare (o quantomeno tentare) le diseguaglianze rappresenterebbe il vero messaggio innovativo di una “nuova” classe politica attenta ai bisogni primari dei cittadini e della collettività tutta.

Cosa si intende per “Diversity Management” e perché è così importante?
L’insieme delle pratiche che mirano a rispettare tutte le diversità all’interno di un’azienda. Infatti, integrazione, rispetto e inclusione delle diversità costituiscono punti di forza e contribuiscono all’innovazione e al cambiamento. È evidente che bisogna ancora lavorare molto per sviluppare l’inclusione oltre alla diversità. La diversità non riguarda infatti solo il gender gap, che è ancora evidente in Italia soprattutto a livello manageriale, ma è un tema culturale che attiene alla rappresentanza e alla valorizzazione delle minoranze e, quindi, in ultima analisi, del capitale umano delle aziende. È prima di tutto un tema “sociale” che rientra a pieno titolo nelle strategie ESG. La diversità deve essere un elemento competitivo delle aziende che si esprime anche nella capacità di attrarre, mantenere e far crescere talenti, indipendentemente dal fatto che siano donne, uomini o che appartengano a minoranze etniche-culturali, che tradizionalmente vengono poco rappresentate. Tutte le grandi aziende si pongono ora il tema della diversità come uno dei cardini dello sviluppo del capitale umano. La pandemia, tra le altre, ha mostrato le criticità anche in questo senso: nuove modalità di lavoro da remoto, cambiamenti nelle organizzazioni aziendali e uscita dal mondo del lavoro delle donne. In questo contesto, emerge un ruolo fondamentale anche dei CdA nello stabilire obiettivi, in termini di diversità e inclusione, a tutti i livelli dell’organizzazione. Devo infine sottolineare che a livello nazionale, con il PNRR, il Next generation EU e l’impegno profuso dal Presidente del Consiglio Mario Draghi, ci stiamo muovendo nella giusta direzione, con l’obiettivo di creare nelle aziende un ambiente più inclusivo e trasversale. La vera domanda è: siamo tutti d’accordo?

Lei è stata promotrice in Senato della legge n. 120 del 2011, che ha introdotto l’obbligatorietà di una quota di donne nei CdA delle società quotate in Borsa. Cosa ha significato questa l’introduzione di questa misura?
Cosa ha voluto dire la legge 120/2011 sta intanto nei numeri recentissimi presentati da un rapporto della Consob lo scorso 12 novembre. Nel 2011 le donne rappresentavano poco più del 7% dei consiglieri di amministrazione, mentre nel 2021 il dato sfiora il 41%, con 9 CdA a maggioranza femminile alla fine del 2020.  Nel 2011, le donne rappresentavano il 6,5% dei componenti dei collegi sindacali, mentre nel 2021 il dato raggiunge il 41%, con 38 collegi sindacali a maggioranza femminile (1 al 100%) a fine 2020. Se poi consideriamo i cambiamenti delle caratteristiche degli organi sociali delle imprese quotate italiane, nel periodo 2011-2020, rileviamo che, per quanto riguarda gli amministratori, abbiamo più stranieri, più laureati, una maggiore diversificazione professionale e un’età media più bassa. Dati che sono ancora più significativi se consideriamo i consiglieri donne nei CdA: più straniere, più laureate, più giovani, più presenti nei comitati. Dati che sono ulteriormente rafforzati per le donne negli organi di controllo. Il punto su cui si deve ancora lavorare molto è quello dei ruoli ricoperti dalle donne nei CdA, dove si registra, alla fine del 2020, che le donne AD sono 16 e rappresentano solo il 2% del valore totale di mercato. Un dato leggermente superiore per quanto concerne le donne Presidenti dei CdA. Questi dati dimostrano la rivoluzione culturale e l’innovazione che la legge 120/2011 ha portato. È stata un’esperienza molto forte della mia attività parlamentare perché, in quanto relatrice della legge in Senato, ho avuto un’interlocuzione fortemente costruttiva con la Istituzioni, con le Associazioni di categoria, con Confindustria, con Abi, con Consob, con Assonime e con molti altri, che ha portato all’elaborazione di un testo molto equilibrato e rispettoso delle molteplici sensibilità ed esigenze. Ciò ci ha permesso di superare i molti ostacoli posti dalla politica, dal mondo maschile ma anche da una parte di donne in Parlamento. In Italia abbiamo una eccellenza in quanto a Diversity e Inclusione. Secondo il Diversity and Inclusion Index di Refinitiv, Società del London Stock Exchange Group, Intesa San Paolo è la prima banca in Europa, sesta al mondo e unica in Italia, tra i 100 luoghi di lavoro più inclusivi e attenti alla diversità. Il Gruppo si è classificato al 50° posto, in crescita di 26 posizioni rispetto al 2020. Ora, la legge 120/2011, che sarebbe scaduta nel 2022, è stata prorogata, la quota è stata innalzata al 40% con un nuovo periodo di vigenza di 6 anni, al termine del quale tutti ci auguriamo che il vincolo delle quote, ovvero di una norma di garanzia, non sia più necessario. Quella sarà la vera vittoria. Anche perché quella che è stata una pressante questione morale e sociale ed è una sfida economica. I passi avanti sul fronte della parità di genere potrebbero aggiungere infatti, secondo uno studio di McKinsey Global Institute, 12 trilioni di dollari alla crescita globale. E in Italia, portare un aumento del Pil di 7 punti percentuali.

Il raggiungimento della parità di genere è una questione anche culturale. Come si può accelerare questo processo?
Il processo si deve accompagnare senza scontri ideologici, ma piuttosto con attenzione e costanza, puntando sulla diffusione di una cultura che già appartiene alle giovani generazioni. Ragazzi e ragazze crescono insieme, studiano insieme, cominciano a lavorare insieme. La competizione è nella natura stessa delle persone, delle loro aspettative e delle loro ambizioni. È di tutta evidenza che un ruolo fondamentale è sempre quello dell’educazione in famiglia, a scuola e nella formazione professionale.

Lei fa parte del Comitato Scientifico della Smart Future Academy. In cosa consiste e perché è nato questo progetto rivolto ai giovani?
Smart Future Academy è un progetto di orientamento che nasce dal desiderio di aiutare i giovani a trovare una risposta alla fatidica domanda “Cosa vuoi fare da grande?”, attraverso gli incontri con persone in grado di trasmettere la loro passione, raccontando la propria esperienza di studio, di formazione, di lavoro e di vita. Le ragioni del successo della formula di Smart Future Academy sono semplici ed emblematiche. In modo innovativo, si favorisce il dialogo tra mondo della scuola, mondo del lavoro e dell’alta formazione, con l’obiettivo di trasmettere ai ragazzi la consapevolezza che è possibile raggiungere la realizzazione personale con l’impegno, la dedizione, ma anche con la fiducia e l’ottimismo.