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La Filantropia Strategica in Italia: Verso un Modello di Network Philanthropy

Contributo dei Professori di Economia Aziendale Giacomo Boesso, Fabrizio Cerbioni e Andrea Bafundi per Fondazioni

La filantropia strategica è un concetto sviluppato nel panorama internazionale, ma il suo adattamento al contesto italiano richiede un approccio peculiare. La quinta indagine dell’Università degli Studi di Padova sulle Fondazioni di Origine Bancaria italiane delinea un quadro incoraggiante sull’evoluzione di queste istituzioni verso un modello di network philanthropy che coniuga strumenti di programmazione e controllo con la partecipazione degli attori sul territorio.

Il “filantropo strategico” sceglie il disagio sociale su cui intervenire, individua i partner di progetto più adatti, li affianca e supporta con risorse finanziarie e competenze, per sperimentare possibili soluzioni anche innovative e rischiose, ed infine condivide successi e fallimenti con altri enti pubblici e filantropici.

I dati raccolti tra i decision makers delle FOB evidenziano un’adozione crescente dei postulati della filantropia strategica come enunciati dalla letteratura statunitense (in particolare della Harvard Business Review), con una media di 5,4 su 6 per la “selezione di beneficiari sinergici al raggiungimento degli obiettivi della Fondazione”, 4,9 per “l’aggregazione di attori e risorse intorno a progetti meritevoli”, 4,9 per la “condivisione di prassi operative con i beneficiari” e 4,7 per la “disseminazione di modelli d’intervento utili anche per il policy maker”.  Inoltre, gli organi di governo dedicano in media il 55% del loro tempo ad attività di programmazione e il 38% a verifiche e controlli, con un aumento rispettivo del 5% e 2% rispetto ad un’analoga indagine di dieci anni fa.

L’originalità di questa indagine risiede nell’analisi delle associazioni che emergono tra governance proattiva, gestione partecipativa dei progetti sociali e trasferimento di competenze presso i beneficiari. Emerge una correlazione positiva tra sistemi di programmazione e controllo maggiormente articolati e la capacità di trasferire competenze progettuali e tecniche alle organizzazioni beneficiarie delle erogazioni (con una media di 5,2 su 6). Inoltre, la proattività dei consiglieri delle Fondazioni nel costruire reti d’intervento si associa a progetti che sono mediamente percepiti come più innovativi (media di 4,9).

I dati raccolti evidenziano una varietà di soluzioni organizzative adottate dalle Fondazioni per selezionare e integrare diverse competenze attorno ai loro capitali, con l’obiettivo di dare vita a interventi sussidiari, innovativi e partecipati da più soggetti. Si delineano tre “idealtipi” di amministratori presso le Fondazioni: i “focalizzati”, che prediligono progetti propri e innovativi per ridurre alcune criticità sociali individuate sul territorio (educative, culturali, sanitarie, etc.); i “manageriali”, che enfatizzano l’aggregazione di competenze e la co-gestione di progetti sociali con beneficiari esterni; e gli “istituzionali”, che cercano di integrare entrambi gli approcci in un modello ibrido.

Ciascun approccio si rivela efficace nel generare un impatto positivo sul territorio, adottando strumenti di programmazione e controllo differenziati e stili di governance distinti. Ad esempio, i “focalizzati” prediligono assumere rischi con progetti innovativi e monitorarne attentamente i risultati (media di 3,5), mentre i “manageriali” enfatizzano l’individuazione di project-leader professionisti per ogni erogazione (media di 3,6) e gli “istituzionali” perseguono il supporto al civismo e alle reti sociali (media di 5,2).

È importante ricordare come qualsiasi investimento in una attività di programmazione o controllo distoglie risorse umane e finanziarie dalle attività a diretto beneficio degli utenti finali. Pertanto, ogni strumento deve essere attentamente valutato nei suoi costi e benefici prima di essere adottato dalla Fondazione.

L’analisi evidenzia come l’utilizzo di strumenti manageriali, la ricerca di allineamento tra risorse e obiettivi, e la co-progettazione con enti del territorio si associno positivamente al trasferimento di competenze tecniche, all’innovazione nei progetti e all’utilizzo delle erogazioni come seed funding per progetti in grado di diventare autonomi e pluriennali.

Ciò che emerge con forza è l’importanza del “modello filantropico” adottato dalle Fondazioni. Un approccio reticolare, basato sulla cooperazione e la fiducia tra soggetti istituzionalizzati e professionisti del terzo settore, sembra essere la chiave per massimizzare l’impatto sociale degli investimenti filantropici. I dati mostrano che il 67% dei filantropi “manageriali” e il 44% degli “istituzionali” dichiarano competenze manageriali, evidenziando l’importanza di introdurre e personalizzare anche nel terzo settore alcune buone prassi di programmazione e controllo proprie del mondo aziendale.

Le Fondazioni italiane stanno progressivamente abbracciando questa visione di filantropia di rete, dove l’azione strategica si fonde con la condivisione di competenze, sperimentazioni, dati e risultati. I nuovi professionisti del terzo settore sono alla perenne ricerca di sinergie operative, capaci di generare moltiplicatori favorevoli intorno a progetti meritevoli di attrarre maggiori risorse finanziarie e umane.

Questo modello di filantropia partecipativa si fonda sulla creazione di reti d’intervento e sulla collaborazione tra competenze progettuali specialistiche. Non si tratta di un percorso lineare, ma di un processo dinamico in cui le Fondazioni sperimentano, apprendono e si adattano costantemente alle esigenze del territorio. L’indagine rivela che il 30% dei rispondenti proviene da Fondazioni di dimensioni contenute (con un patrimonio tra 51 e 150 milioni di euro), evidenziando come questo approccio non sia prerogativa solo delle istituzioni meglio patrimonializzate e sia applicabile anche da realtà più piccole.

Ciò che emerge con chiarezza è l’importanza di un approccio flessibile e aperto al dialogo con gli attori sul campo. La filantropia strategica italiana non può essere una mera replica dei modelli anglosassoni, ma riesce a coniugare il rigore deterministico di linee d’intervento formalizzate con strategie emergenti co-disegnate con gli stakeholder locali.

In conclusione, l’indagine dell’Università di Padova offre uno spaccato interessante e dettagliato sull’evoluzione delle Fondazioni di Origine Bancaria italiane verso un modello di network philanthropy che valorizza la partecipazione, la condivisione di competenze e la costruzione di reti d’intervento. Un modello che, pur aprendosi a tecniche manageriali, abbraccia la flessibilità e l’adattamento alle specificità del contesto sociale in cui operano le principali istituzioni filantropiche nazionali.

L’intera indagine è disponibile sul sito dedicato del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “M. Fanno”:

https://www.economia.unipd.it/governance-e-filantropia-strategica-nelle-fondazioni-erogazione-italiane-gfs