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Finalmente il “noi” in costituzione | Ferdinando Menga

Intervista a Ferdinando Menga, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”

Ferdinando Menga è professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”. Oltre a numerosi articoli, ha pubblicato Cura (RCS/Corriere della Sera 2023), Responsività. Giustizia per le generazioni future (Consorzio per il festivalfilosofia 2023). Con lui abbiamo parlato del nostro rapporto con il tempo futuro e di come sia fondamentale allargare le nostre comunità includendo i più vulnerabili, tra cui rientrano anche le generazioni future.

Professore, che relazione c’è tra il nostro rapporto con il tempo futuro e i legami intergenerazionali? 

Questa connessione può sembrare abbastanza ovvia, ma se la analizziamo sotto la lente dell’investigazione filosofica si rivela più intricata di quanto possa apparire inizialmente. Partiamo da un assunto che tutti conosciamo: il legame fra le generazioni implica evidentemente uno scorrere verso un tempo futuro. Affermare questo, però, non basta poiché, come ci ha insegnato bene Martin Heidegger, tutto sta nel comprendere appieno il modo specifico in cui si connota la dimensione temporale al fondo di ogni impianto culturale e sociale. Solo da questa comprensione, poi, è possibile cogliere la specificità attraverso cui, ora in un modo ora in un altro, vengono assunte e gestite le relazioni intergenerazionali. Non è difficile cogliere come l’impianto temporale della nostra tradizione moderna sia scandito da un’alleanza tra tecnica, visione liberale della società ed economia capitalistica. Sulla base di questa visione, il tempo viene inteso come qualcosa di perennemente presente e a nostra disposizione per rendere possibile un incessante sfruttamento. Questa interpretazione, a ben vedere, fa il paio esattamente con l’idea di progresso di matrice illuministica. Il tempo scorre linearmente e porta con sé un continuo accrescimento, l’ottenimento di mezzi sempre maggiori, nonché il destino di un miglioramento quasi indubitabile. Da questa impostazione generale possiamo far conseguire l’interpretazione predominante del rapporto intergenerazionale: se il tempo è contraddistinto dalla freccia del progresso, alle generazioni future non spetteranno altro che condizioni migliori delle nostre. Questa assunzione, addirittura, indusse Kant a concludere che l’unico fattore problematico delle connessioni intergenerazionali è dato dall’impossibilità per le generazioni presenti di assistere alla sicura espressione di riconoscenza da parte di quelle future per i miglioramenti ottenuti grazie al lavoro delle prime. Ora, la nota dolente di un’interpretazione del genere è che essa ha potuto funzionare e affermarsi, però, solo in forza di una logica d’opacizzazione operativa al suo interno. 

“Non appena ci rendiamo conto che ciò che sfruttiamo oggi lo stiamo togliendo ad altri, il tempo da semplice indice neutro e funzionale si rivela carico di una connotazione etica”

Quale? 

Esattamente quella dell’esclusione e rimozione delle vulnerabilità da essa stessa prodotte. La visione del tempo che abbiamo descritto precedentemente potrebbe funzionare, senza resti ed esclusioni, solo se le risorse fossero infinite. Ma, siccome infinite non lo sono, emerge subito un’accezione eminentemente “etica” del tempo. Infatti, non appena ci rendiamo conto che ciò che sfruttiamo oggi lo stiamo togliendo ad altri, il tempo da semplice indice neutro e funzionale si rivela carico di una connotazione etica: il presente impone, di volta in volta, una scelta di responsabilità su cosa fare del tempo; impone un dover giustificare le proprie azioni, proprio in ragione di inevitabili esclusioni di e per altri. Oggi questa logica di esclusione emerge chiaramente perché vediamo coi nostri stessi occhi che il futuro si mostra assai diverso da come lo immaginava Kant. La situazione è esattamente ribaltata: altro che lamentarci di non poter incontrare le generazioni future! Anzi, dobbiamo ritenerci fortunati di non riuscirci, perché sicuramente ci condannerebbero per il nostro stile predatorio e i danni a loro procurati. In tal senso, è solo la dimensione etica del tempo a spingerci a mettere in discussione una visione cieca del progresso e a cogliere l’imperativo di una “consegna responsabile” ad altri. 

Le emergenze del nostro tempo stanno contribuendo a modificare il nostro rapporto con il futuro? 

Senz’altro stanno assumendo un ruolo importante. Nell’alleanza tecnologico-capitalistica- liberale – che da qualche decennio ha assunto una piega di carattere neoliberale – la dinamica d’esclusione risulta sempre più opacizzata. Spie d’allarme riescono ad accendersi solo nei momenti in cui avvengono rotture di sistema effettivamente percettibili. La pandemia ha fatto emergere chiaramente il carattere velleitario e iniquo del nostro progetto titanico. Velleitario, perché, nel momento in cui quasi ci eravamo illusi di avere tutto, e di godere al massimo delle nostre possibilità tecnologiche, ci siamo trovati scaraventati nella più acuta ed estesa situazione di vulnerabilità a cui la nostra storia moderna abbia mai assistito. Iniquo, poiché è stata esattamente la condizione di fragilità estrema che ci ha costretti a interrompere la nostra presenza ingombrante, ad aver mostrato quanto il pianeta stesso sia un luogo di co-abitazione e non di esclusivo appannaggio dell’essere umano. In tal senso, non è stato affatto casuale che il lockdown abbia dato modo agli animali, esseri vulnerabili per eccellenza, di riappropriarsi di quegli spazi di mondo da cui il nostro stile di vita usurpatorio li aveva costantemente scacciati. 

“Altro che lamentarci di non poter incontrare le generazioni future! Anzi, dobbiamo ritenerci fortunati di non riuscirci, perché sicuramente ci condannerebbero per il nostro stile predatorio e i danni a loro procurati”

Nel tutelare l’interesse delle generazioni future, che ruolo gioca l’educazione?

Educare implica necessariamente guardare a lungo termine, captando le necessità di chi verrà dopo di noi. Hannah Arendt afferma: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani”. Proprio per questo, quella dell’educazione è forse l’emergenza maggiore e più allarmante che c’è oggi. In effetti, in una cultura iper-tecnologica come quella odierna, votata al consumo e piegata alla produzione istantanea di nuovi bisogni da soddisfare, tutto risulta schiacciato sul presente e nulla sembra andare in direzione di progetti educativi votati alla protezione del futuro, alla protezione delle chance di chi verrà più in là. Dovremmo invece garantire ai futuri la possibilità di progettare il loro mondo, a partire dalle loro risorse: questo è l’atto di massima generosità e generatività in cui, evidentemente, al tempo presente, stiamo fallendo. Proprio per questo, probabilmente non è un caso che siano proprio i giovani, con le loro proteste globali, a provare a insegnare qualcosa agli adulti e non viceversa: con il loro impegno e cura stanno testimoniando, in effetti, che la dignità umana, se vuole essere qualcosa, deve necessariamente essere declinata al futuro. 

“Sempre più carte costituzionali stanno inserendo nel “Noi” collettivo il richiamo ad una responsabilità verso le generazioni future. Ogni comunità misura la propria dignità nel rispondere non soltanto agli appelli dei presenti, ma anche alle invocazioni dei cittadini che verranno” 

Il riconoscimento, avvenuto nel 2022, della tutela delle generazioni future in Costituzione (all’art. 9), rappresenta un passo avanti in questo senso? 

La cosa più interessante è che per la prima volta nella nostra storia costituzionale è stato modificato uno dei primi 12 articoli, quelli fondativi della nostra identità collettiva. Questo è senz’altro un importante segnale. Allo stesso tempo, dobbiamo però riscontrare che un tale riconoscimento assume quasi soltanto una forma di monito. A fronte di questa modifica, infatti, non siamo ad oggi in possesso di veri e propri strumenti istituzionali, progetti economici o programmi politici all’altezza del compito. È come se questa modifica acquisisse, dunque, una forma di richiamo emergenziale necessario, a cui, tuttavia, dobbiamo trovare ancora risposte attuative. Una tendenza globale si sta però delineando. Oggigiorno, infatti, se ci guardiamo attorno, sempre più carte costituzionali stanno inserendo nel “Noi” collettivo il richiamo a una responsabilità verso le generazioni future. Mi piace interpretarlo come un primo passo in direzione di quella che può essere definita la grande missione politica a venire: quella in cui ogni comunità misura la propria dignità nel rispondere non soltanto agli appelli dei presenti, ma anche alle invocazioni dei cittadini che verranno. 

Dalla rivista Fondazioni giugno 2024