Intervista a Valentina Perniciaro, Fondazione Tetrabondi
per Fondazioni – dicembre 2022
La #disabilità è vista come qualcosa che non rende capaci di scegliere, autodeterminarsi, essere liberi: ma è così solo per colpa della società, dell’approccio verso vulnerabilità e diversità che porta solo a pietismo, segregazione, dipendenza totale, isolamento». Autodeterminazione, libertà e ruolo della società: c’è già tutto in questo tweet di Sirio e i Tetrabondi, ovvero Sirio Persichetti, bambino romano di 9 anni, con una diagnosi di tetraparesi spastica e paralisi cerebrale.Ai suoi 80mila follower sui social network Sirio racconta la sua quotidianità di lotte per rivendicare il diritto ad andare a scuola con i suoi compagni, avere l’assistenza domiciliare, fare sport, litigare con suo fratello Nilo, tifare la sua squadra del cuore allo stadio (la Roma), andare in bicicletta, lanciarsi da una rampa con lo skateboard, insomma, divertirsi, proprio come fanno tutti i bambini della sua età. Dietro questo racconto c’è Valentina Perniciaro, la mamma di Sirio, che gli dà voce con un linguaggio che, ribaltando la tradizionale visione della disabilità, sta diffondendo una testimonianza che rimette al centro la persona, i suoi desideri e la voglia di cambiare la società, affinché sia veramente a misura di tutti. Dai social è nato un libro “Ognuno ride a modo suo. Storia di un bambino irriverente e sbilenco” (Rizzoli, 2022) e la Fondazione Tetrabondi, che ha l’obiettivo di diffondere una nuova visione della disabilità e aiutare le famiglie nel percorso di riconoscimento dei loro diritti. Con un taglio militante – ma festoso, ci tiene a precisare – Valentina Perniciaro evidenzia il ruolo centrale del Terzo settore, la sua creatività e le sue competenze, ma continua a pretendere dallo Stato e da tutta la società che ognuno faccia la propria parte.
Una delle parole che ricorre più frequentemente nei suoi discorsi è “autodeterminazione”. Da dove viene questo termine?
Da quando ho tredici anni io lotto per cambiare il mondo. Nel mio percorso di militanza lo slogan è sempre stato: dare voce a chi non ha voce! Mi sono sempre occupata di lotta per l’emancipazione, la liberazione e l’autodeterminazione delle donne e dei popoli, difendendo il diritto di ciascuno ad autodeterminarsi. Non mi ero mai interessata al tema della disabilità, perché l’avevo sempre considerata competenza di qualcun altro. Tuttavia è stato naturale per me estendere il concetto di autodeterminazione nella mia nuova quotidianità da caregiver di una persona con disabilità. È proprio questo concetto militante che mi ha portato a trasformare il mio dramma personale in un percorso collettivo e politico, che riuscisse ad essere parte di una trasformazione che ritengo necessaria, per accogliere ogni tipo di vulnerabilità e complessità, non solo quella legata alle persone con disabilità.
Parlando di disabilità, cosa vuol dire diritto all’autodeterminazione?
Autodeterminazione significa poter essere parte attiva della propria esistenza, scegliere le strade da intraprendere in base ai propri desideri, costruire il proprio progetto di vita ricercare la felicità, a prescindere dalle proprie condizioni di partenza. Questo l’ho imparato stando accanto a mio figlio. Se una persona è messa nelle giuste condizioni, con i suoi tempi e ha al fianco una professionalità adeguata ai suoi bisogni, può realmente autodeterminarsi. Tutto parte dalla capacità di comunicare, che è la prima espressione di autodeterminazione e di affermazione dell’io. Per quanto riguarda Sirio, mi avevano detto che non aveva le basi per autodeterminarsi. Invece, abbiamo scoperto che non era affatto così ed è stata una conquista molto semplice: sono bastati due elastici per capelli, uno verde e uno rosso, messi ai polsi di Sirio, uno per dire sì e l’altro per dire no. Questa è stata la chiave di volta: la possibilità di scegliere, accettare o rifiutare. Da quel momento è diventato Sirio in tutto e per tutto, perché è riuscito a dire quello che voleva o non voleva fare. Questa è la base dell’autodeterminazione: costruire sé stesso nel mondo, come parte attiva della società. Le vulnerabilità hanno bisogno di professionalità che li portino a comunicare, ma anche di una società che ascolta, capisce e accetta come e cosa comunicano. È un lavoro che dobbiamo fare tutti, altrimenti non funziona.
Ha scritto anche di un necessario ribaltamento dello sguardo sulla disabilità. Cosa intende?
Purtroppo siamo abituati ad accostarci alla disabilità esclusivamente come a una diagnosi, ovvero etichettando quei corpi come bisognosi solo di cura e di assistenza. Invece, dovremmo cominciare a ragionare in maniera diversa sulla disabilità e iniziare a considerarla una peculiarità ineludibile dell’essere umano. Come la biodiversità nella natura: siamo tutti assolutamente unici e diversi. Nella bellezza e nella complessità che la diversità comporta. Solo questo ribaltamento dello sguardo ci consentirà di togliere questa etichetta e di rimettere al centro la persona. Solo così si iniziano a vedere solamente bambini e ragazzi, che hanno il diritto di diventare adulti come gli altri, o uomini e donne che possono incamminarsi sul proprio percorso di vita. Questo processo serve per far comprendere a tutti che dietro a un “corpo non conforme” c’è sempre una persona, con i suoi desideri, le sue emozioni, le sue competenze e i suoi bisogni, e non solo un’etichetta.
E poi c’è il diritto all’istruzione. Una delle grandi battaglie che avete portato avanti è quella per l’accesso e l’assistenza a scuola. Come fare per vedere effettivamente garantito questo diritto?
Innanzitutto, dobbiamo essere chiari: se non sono per tutti, allora smettono di essere diritti e dobbiamo iniziare a chiamarli privilegi. E la scuola non può essere un privilegio! Oltre alla didattica, la scuola offre una straordinaria occasione di interazione tra coetanei che permette a bambini e ragazzi di uscire dal proprio contesto famigliare. Il diritto all’istruzione non può essere un privilegio esclusivo di chi ha corpi “conformi” che non hanno necessità di altre figure professionali di supporto per poter partecipare attivamente alla vita della classe. Ad esempio, tutti i compagni di classe di Sirio hanno imparato la lingua dei segni, per comunicare con lui, perché Sirio ha bisogno di una comunicazione integrata per poter interagire con il mondo Comunicare con i suoi coetanei è diventato uno strumento di conoscenza prezioso, anche e soprattutto per la sua comunità. Dobbiamo raccontare i bisogni, cercando di contribuire a educare alla diversità una società che ha tutto da guadagnare da questa scoperta.
E cosa succede dopo la scuola?
Se si considera la disabilità solo come un’enorme etichetta, lo Stato continuerà a porsi il problema delle persone disabili esclusivamente nel periodo scolastico. Dunque, dopo la scuola rimane solo la famiglia come unica forma di assistenza continuativa. Torna ad essere un problema di tutti, solo quando muoiono i caregiver, con il “dopo di noi”. Dopo la scuola rimane esclusivamente la segregazione di persone con disabilità e caregiver. Spesso mi capita di incontrare persone che mi dicono: «Sai, ho avuto anche io uno “come Sirio” a scuola». Io rispondo sempre: «E ora, dove sta?», e cala sempre il silenzio, perché nessuno sa dove sia finito il suo compagno di scuola con disabilità. Lo so io: sono tutti segregati in casa con i loro famigliari o in altre forme di cura totalmente istituzionalizzate.
Dopo il diploma scompaiono i bisogni speciali?
Anche con tutte le difficoltà e le lotte che le famiglie si sobbarcano per vederli riconosciuti, sono comunque diritti “a scadenza”. Cessano al compimento dei diciotto anni. Dopo il diploma, le persone con disabilità per la società scompaiono. Quando finisce la fase dei “bisogni educativi speciali” sembra non esistano altri “bisogni speciali”. Non sono più educativi, ma riguardano il diritto all’abitare, all’indipendenza, a immaginarsi parte attiva della società… Anzi, per la società le persone disabili rientrano nella categoria “psichiatrica”, e si passa alla medicalizzazione della disabilità. Ed è un vero dramma: si passa da essere cresciuti e accompagnati dai terapisti neuro-riabilitativi alla totale psichiatrizzazione. In moltissimi casi – proprio quelli che potrebbero essere i meno complessi a livello assistenziale! – c’è una grande involuzione del percorso di cura.
Cosa pensa del “dopo di noi”?
A me hanno iniziato a chiedere del dopo di noi quando avevo 31 anni. La cosa mi faceva un po’ arrabbiare. «Quando tu non ci sarai più come faremo?» Questo è surreale. Nessuno si interroga sul “durante”, sulla qualità della vita delle persone con disabilità e dei loro caregiver. Nessuno considera gli adulti con disabilità costretti a vivere con i genitori tutta la vita. Quale persona lo vorrebbe? Anche questa è una privazione del proprio diritto all’autodeterminazione: liberarsi dal proprio caregiver. Questo è un processo che abbiamo fatto tutti ed è la cosa più naturale del mondo. Parliamo di progetti di vita indipendente, di coabitazione, che ci auguriamo che diano a Sirio la possibilità di vivere in una società dove possa sbattere la porta in faccia ai suoi genitori, dicendogli «La costruisco comunque la mia autonomia!». Certo con il nostro aiuto, ma magari fuori dalla porta di casa e dal contesto esclusivamente famigliare.
Perché nasce la Fondazione Tetrabondi?
Il nostro primo obiettivo era di comunicazione, ovvero cercare di cambiare il paradigma culturale. Poi abbiamo capito che dovevamo sporcarci le mani, perché, oltre alla conoscenza dei diritti, c’è anche bisogno di mettersi in rete. Innanzitutto, Fondazione Tetrabondi intende lavorare negli spazi pubblici, negli uffici, nel design urbano. Per questo organizziamo “passeggiate inclusive”, collaboriamo con l’Ordine degli architetti, promuoviamo l’apertura di palestre pubbliche per lo “sport adattato” e lo sport di squadra in carrozzina, organizziamo visite guidate dei Fori imperiali in Jolette Kids (una speciale carrozzina “fuoristrada”), gare di tricicli adattati per bambini con disabilità, e tanto altro. E poi pensiamo di poter contribuire a cambiare lo sguardo sulla disabilità anche attraverso il gioco, dando la possibilità alle persone di divertirsi su ausili che solitamente sono considerati strumenti di costrizione e di dolore ma che, invece, si possono utilizzare come normalissimi strumenti di spostamento, gioco, divertimento, perfino di adrenalina. Per questo abbiamo costruito uno skatepark accessibile, dove ci si può lanciare dalle rampe anche con la sedia a rotelle! E, infine, c’è l’assistenza alle famiglie che si trovano sempre sole. Recentemente abbiamo attivato uno sportello di orientamento legale per famiglie con bambini che necessitano di assistenza infermieristica e che devono accedere a scuola. Lavoriamo con un’avvocata, che è un’esperta nazionale di diritto della disabilità, che ci affianca.
Finora abbiamo parlato di Stato e di famiglie. Qual è il ruolo del Terzo settore?
Sul tema della disabilità il Terzo settore nasce e cresce per coprire un vuoto lasciato dallo Stato. Ma non possiamo aspettarci che faccia tutto da solo. Neanche tutti insieme avremmo mai le forze – né la voglia – per sostituirci al Pubblico. È lo Stato che deve garantire tutti i diritti delle persone disabili! Questo non riguarda solo la cura. Ci sono alcuni progetti nazionali di vita indipendente e di coabitazione, di inserimento alla vita lavorativa, sessuale, relazionale, abitativa, ma non bastano. Lo ripeto: il Terzo settore non può sostituire lo Stato. Ma lo Stato dal Terzo settore può apprendere tantissimo, in termini di idee, esperienze, competenze, buone pratiche, studio, impegno, e capacità di fare rete. Ma è ovvio che tutta questa ricchezza da sola non basta. Noi dovremmo essere puntigliosi nel continuare a pretendere una società che valga per tutti. E dovremmo continuare a farlo, non solo con la rabbia e il rancore che ogni tanto ci prende ma con gioia e festosamente. Io non voglio sostituirmi allo Stato, ma pretendo che ognuno si assuma le proprie responsabilità, mettendoci del suo: lo Stato per garantire i diritti, la società per imparare a riconoscere la pluralità dei bisogni.