Intervista a Cesare Moreno, presidente di Maestri di Strada
per Fondazioni marzo 2023
Maestri di Strada onlus nasce nel 2003 e quest’anno festeggia il suo ventennale. È un’associazione di professionisti dell’educazione, della scuola e della psicologia che sperimentano pratiche e didattiche educative che possano contribuire al cambiamento della scuola. A lavorare insieme sono circa 50 tra educatori, psicologi, esperti e 20 scuole dell’estrema periferia est di Napoli, nei quartieri di Ponticelli, Barra e San Giovanni coinvolgendo circa 350 bambini e giovani ogni anno. Abbiamo intervistato Cesare Moreno, maestro e presidente dell’Associazione.
Chi sono i maestri di strada?
Ci tengo a sottolineare innanzitutto che i maestri di strada non sono dei volontari, sono dei professionisti con un obiettivo: elaborare e sperimentare progetti per contrastare la dispersione scolastica e promuovere la cittadinanza giovanile. L’idea di base del nostro lavoro è che la scuola rappresenti un luogo cruciale per rifondare il contratto sociale, come lo definiva Jean-Jacques Rousseau, promuovendo le potenzialità dei giovani e dunque rendendoli cittadini attivi e partecipi alla vita e alla trasformazione del Paese. Purtroppo la scuola, spesso, non riesce a rispondere a questo mandato.
Perché la scuola non riesce a rispondere questo mandato?
Perché la scuola italiana è ancora fortemente gentiliana, fondata su una concezione della cultura elitaria, disinteressata e verbalistica, e su un approccio all’obbedienza che vede la pratica come una diminutio, mentre dovrebbe essere considerata parte integrante e fondamentale del processo educativo. Come affermava Galileo Galilei, bisogna fare «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni», vale a dire fare esperienza dei sensi: le parole, il linguaggio e i concetti devo essere messi in lavorazione dai ragazzi. Non basta più la lezione frontale, neanche quando sono in grado di ripeterla correttamente. I ragazzi devono avere la possibilità di sperimentarsi, di esercitarsi nella scrittura creativa, che non significa letteralmente “scrivere” ma creare, rielaborare, cimentarsi, per diventare consapevoli delle persone che sono, per riconoscersi. L’impianto è invece ancora quello dell’insegnamento trasmissivo e i professori sono stati formati e reclutati per mettere in pratica questo approccio. I professori dovrebbero avere una conoscenza profonda della disciplina, certo, ma anche una preparazione pedagogica e delle competenze psicologiche per essere capaci di assumere la realtà dei bambini e dei ragazzi, empatizzando con loro. L’empatia è un fattore fondamentale nella relazione educativa ed è una qualità che si costruisce, si coltiva e si mette in pratica. I professori, dunque, oltre ad insegnare le nozioni di italiano, matematica, storia e geografica devono vedere i ragazzi, li devono riconoscere e ascoltare.
“Non basta più la lezione frontale; i ragazzi devono avere la possibilità di sperimentarsi, di creare, e rielaborare per diventare consapevoli delle persone che sono, quindi per riconoscersi”
In che modo lavorate affinché queste trasformazioni educative avvengano?
Lavoriamo da anni nelle periferie “disgraziate” della Napoli orientale, che detiene il record del livello di dispersione scolastica e di criminalità. Non ci siamo mai espansi perché qui c’è ancora tanto da fare. Abbiamo siglato un accordo con diciotto scuole, dove siamo presenti con i nostri educatori, gli psicologi di comunità e con gli esperti di musica, danza e teatro. Non seguiamo solo i ragazzi “difficili” o “fragili”, noi seguiamo intere classi, portando attività che possano migliorare la didattica, il rapporto tra i ragazzi e gli insegnanti ma, soprattutto, che possano rendere la scuola una comunità, perché è il primo luogo che dovrebbe esserlo ma che, nella realtà, non lo è. Vige infatti la competizione, l’estraneità, la divisione in gruppi e, spesso, sembra essere una guerra di tutti contro tutti. Con le nostre attività, noi cerchiamo invece di costruire una comunità attraverso il dialogo, il rispetto delle diversità e il principio di reciprocità. Come? Ascoltando i ragazzi facendo scoprire loro le proprie potenzialità e, contemporaneamente, dando la possibilità agli insegnanti di confrontarsi, di rendere la didattica più dinamica e stimolante.
In tutti questi anni in che modo è evoluto il vostro lavoro?
Oltre ad essere presenti nelle scuole, abbiamo lavorato molto sulla creazione e sul rafforzamento della comunità educante: undici associazioni e una cinquantina di educatori, in dialogo sistematico con i servizi sociali, le famiglie e alcuni dei ragazzi che abbiamo accompagnato in passato, oggi, collaborano con i maestri di strada. Abbiamo voluto anche creare uno spazio apposito per questa comunità, ristrutturando una vecchia scuola in disuso, così da poter lavorare insieme, confrontandoci costantemente e rafforzando il lavoro di squadra. Inoltre, nella nostra sede diamo la possibilità ai ragazzi che seguiamo a scuola di partecipare a diversi laboratori di musica, teatro, arte visiva, oltre a uno spazio dove studiare, leggere e socializzare. Abbiamo anche un orto urbano e una palestra per l’attività sportiva e portiamo i ragazzi a scoprire tutto il territorio che è denso di beni culturali e di esperienze da fare, cosicché l’educazione non rimanga relegata alle quattro mura della scuola.
“Non seguiamo solo i ragazzi “difficili” o “fragili”, ma intere classi, portando attività che possano migliorare la didattica, il rapporto tra i ragazzi e gli insegnanti ma, soprattutto, che possano rendere la scuola una comunità”
Come reagiscono i ragazzi al vostro approccio?
I ragazzi che incrociamo per la strada appaiono a primo acchito “sporchi brutti e cattivi”, ma se rivolgi loro lo sguardo e li ascolti, ti seguono fino in capo al mondo. Non è facile, ci vuole tempo, pazienza e ascolto, bisogna incassare anche insulti e sgarberie ma, alla fine, si riesce a stabilire una relazione con loro e una qualche forma di collaborazione per far sì che continuino la scuola e imparino qualcosa. La difficoltà più grande che incontriamo è far capire loro che hanno dei talenti da poter coltivare.
Perché è così difficile?
Perché nessuno li vede e li riconosce. Perché sono i genitori, i professori e tutte le persone vicine a non riconoscerli, a non avere fiducia in loro. I ragazzi vanno invece spinti e incoraggiati nella loro vitalità e tensione creativa innata. Al contrario, la scuola li incasella e li trattiene attraverso metodologie e modelli educativi anacronistici, disfunzionali e discriminanti e spesso il loro vissuto è privo di una figura adulta di riferimento che faccia loro da specchio, e questa mancanza ostacola fortemente il percorso di consapevolezza del loro potenziale e della loro identità. I ragazzi giovani, per definizione, non hanno consapevolezza di sé; siamo noi che dobbiamo contribuire a fargliela acquisire e, se lo facciamo, e noi ne abbiamo la prova provata, funziona.
“I ragazzi non credono di avere talenti perché i genitori, i professori e tutte le persone vicine non li riconoscono, non hanno fiducia in loro. I ragazzi vanno invece spinti e incoraggiati nella loro vitalità e tensione creativa innata”
I maestri di strada, dunque, possono fare da specchio ai ragazzi?
Le parole di una ragazza di Ponticelli, che ha partecipato a un laboratorio artistico, credo che rappresentino il ruolo che svolgono i maestri di strada. Descrivendo un murales realizzato con gli altri ragazzi, che rappresenta una donna minuta su un trampolino che si affaccia sull’immensità del mare, ci ha detto: «Non si sa se si butterà o starà lì sul trampolino, se dentro di sé ha un vuoto… L’abbiamo usata come metafora: non si sa cosa farai nella vita». Quando poi le è stato chiesto «Tu ti butteresti?», lei ha risposto «Sì, io mi butto». Questo è quello che fanno i maestri di strada: dare fiducia, far prendere consapevolezza ai ragazzi del loro valore e spingerli a coltivare i propri talenti.
Dalla rivista Fondazioni gennaio – marzo 2023