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Diritto d’asilo e dell’immigrazione, “siamo ancora molto lontani dall’art. 3 della Costituzione” | Giulia Crescini

Intervista a Giulia Crescini, avvocatessa ASGI - Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione

Avvocatessa esperta in diritto dell’immigrazione e in diritto d’asilo, Giulia Crescini è attiva da anni nella difesa dei cittadini migranti. Per questo, forse, il suo tono è così deciso e pungente e le sue riflessioni, oltre ad avere una competenza professionale alla base, mettono sul piatto una profonda consapevolezza delle complessità e delle ingiustizie sociali che caratterizzano il fenomeno migratorio. È socia di ASGI, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione che, nata da un gruppo di avvocati, giuristi e studiosi, con l’intento di condividere la normativa nascente in tema d’immigrazione, è divenuta punto di riferimento per associazioni ed enti pubblici e privati. Ha inoltre contribuito, con i suoi documenti, all’elaborazione dei testi normativi, nazionali e comunitari, in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza, promuovendo, nel dibattito politico-parlamentare e nell’operato dei pubblici poteri, la tutela dei diritti nei confronti degli stranieri.

Il tema dell’immigrazione è ormai un tema caldo da anni nel dibattito politico e sociale. Diverse ricerche e inchieste hanno fatto luce sulle difficili condizioni in cui molti dei cittadini stranieri sono costretti a vivere, determinando una disuguaglianza strutturale tra cittadini italiani e cittadini stranieri. A suo avviso, perché?

Il lavoro quotidiano che portiamo avanti in ASGI ci pone di fronte a una serie di discriminazioni istituzionali che si ripercuotono su tanti livelli. Ci troviamo nella situazione in cui la stessa regolarità di una persona sul territorio nazionale, che gli garantisce l’accesso a una serie di diritti, anche fondamentali, è condizionata dal possesso di un titolo di soggiorno, quindi da una regolarità amministrativa. La conseguenza è stata quella di creare cittadini di serie A e cittadini di serie B, sulla base di una loro condizione amministrativa: il possesso o meno di un permesso di soggiorno. Questo documento altro non è che un’autorizzazione a permanere su un territorio e rappresenta la necessaria conseguenza del controllo delle frontiere e della selezione dei cittadini da ammettere o non ammettere nel paese. Il cittadino straniero, quindi, nei confronti della pubblica amministrazione, è un soggetto che ha una posizione istituzionalmente debole, perché il nostro sistema giuridico crea una difficoltà di accesso ai servizi dovuta alla regolarità o meno sul territorio italiano. Questo, di per sé, produce una condizione diseguale.
Chi non ha un permesso di soggiorno, oltre a non poter accedere ai servizi essenziali, come quello sanitario, finisce inevitabilmente nel circuito dello sfruttamento, nei campi, nella prostituzione, nelle case. Non solo, il suo status non gli permette neanche di difendersi: un cittadino senza permesso di soggiorno non può andare dalla polizia per denunciare le sue condizioni perché ciò lo esporrebbe al rischio di ricevere un decreto di espulsione e di essere trattenuto in un centro per il rimpatrio. Siamo quindi molto distanti dall’art. 3 della Costituzione e dal principio di pari dignità sociale e uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, che ci impone di rimuovere gli ostacoli di diritto che non permettono di raggiungere questa uguaglianza. Noi viviamo invece in un sistema che, a monte, ha concepito per i cittadini immigrati una disuguaglianza amministrativa.

 

Questo approccio istituzionale sembra aver avuto anche delle ripercussioni a livello sociale: assistiamo spesso a sentimenti di rabbia, discriminazione e di emarginazione nei confronti degli stranieri all’interno della nostra società. Come si può percorre la strada della tutela e dell’inclusione sociale di queste persone in un contesto pieno di tanto risentimento, anche a livello comunicativo?

Sicuramente assistiamo alla strumentalizzazione del fenomeno migratorio che va avanti da decenni e che fa dell’immigrazione un capro espiatorio di molti mali e problemi della società. Per esempio, il riferimento costante al termine “crisi” quando si tratta di raccontare l’immigrazione, mentre ricerche e studi rilevanti dimostrano che non siamo di fronte ad una crisi ma ad un fenomeno naturale ed essenziale. Si tratta, infatti, di poche migliaia di persone a essere arrivate in Italia nel 2019 e nel 2020. Questa distorsione del fenomeno ha comportato un’inevitabile inasprimento delle relazioni tra cittadini italiani e stranieri. A ciò, si aggiungono interventi legislativi che sicuramente hanno esacerbato e reso ancora più complessa questa relazione. Le politiche degli ultimi anni hanno infatti relegato all’irregolarità molte persone che avevano il permesso di soggiorno. Allora ci chiediamo: perché rendere ancora più deboli, ancora più ricattabili persone con un permesso regolare? Questo significa che non pagheranno più le tasse, che sarebbe state redistribuite a tutta la comunità, non si potranno più permettere un affitto e non avranno accesso ai servizi sanitari. Perché costringere le persone con un regolare permesso di soggiorno all’irregolarità?
Noi ci siamo convinti che questo è un processo reso necessario da un modello di sviluppo che, per garantire il livello di benessere della maggioranza della popolazione, necessita che ci sia una parte della popolazione che rimanga “irregolare”, che lavori a costi irrisori e che non si trovi nella condizione di poter rivendicare i propri diritti. Solo in questo modo si possono mantenere i prezzi bassi nei supermercati e nei negozi dove noi compriamo i prodotti. Non possiamo più fare a meno del lavoro di persone che sono ridotte in schiavitù, perché, altrimenti, un intervento legislativo che riporta alla irregolarità le persone che erano invece regolari, e che effettivamente potevano integrarsi nel territorio o lo avevano già fatto, non si spiega. Tutto ciò, deriva anche dalla comunicazione mainstream sull’immigrazione che, in un certo modo, legittima lo sfruttamento di queste persone, mistificando la realtà e facendo accettare interventi contrari ai principi fondamentali della Costituzione.

 

La pandemia, però, ci ha insegnato qualcosa sull’importanza di tutelare i diritti degli stranieri? E, quindi sull’importanza del contrasto alle disuguaglianze non solo per la loro tutela ma per il benessere collettivo?

Prima di rispondere le racconto cosa è successo a Roma negli ultimi giorni, perché mi sembra utile raccontarlo in quanto relativo alle modalità in cui è stata affrontata la pandemia e perché non ha avuto alcuna visibilità nella comunicazione mainstream. Qualche mese fa, è stata data la possibilità di istituire delle navi-quarantena, cioè dei luoghi in cui le persone soccorse in mare potessero trascorrere il periodo di isolamento fiduciario prima di essere trasferite nei centri di accoglienza. C’è chi dice che è una forma di restrizione della libertà personale, chi invece lo ritiene necessario perché le persone che arrivano via mare non hanno un posto dove andare. Al di là delle opinioni, è stata approvata l’idea che il cittadino straniero possa essere messo in quarantena su queste navi ancorate in mezzo al mare, chiuso per molte ore al giorno nelle cabine. Quello che è successo però è che sono stati prelevati dai centri di accoglienza, di notte, dei cittadini stranieri che erano, anche da anni, regolari sul territorio italiano e che, per varie ragioni, si trovavano nei centri di accoglienza. Risultati positivi al tampone al Covid19, si trovavano in quarantena all’interno delle loro stanze. Molte di queste persone sono state prelevate di notte (dalla Croce Rossa scortata dalle forze di Polizia) e spostati sulle navi-quarantena, insieme alle persone appena arrivate in Italia. Sono stati lasciati lì per 15 giorni e, una volta fatti scendere, sono tornati nei centri di accoglienza, dove gli è stata comunicata la fine del periodo di accoglienza poiché si erano resi irreperibili per quindici giorni.  Sono stati lasciati tutti per strada.
È un fatto incredibile sotto un numero enorme di profili, ma quello che più inquieta è che sono stati prelevati di notte sulla base della nazionalità, nonostante fossero regolari, nonostante avessero figli, fidanzati o un’attività lavorativa. Quello che a noi sembra è che questa emergenza sanitaria abbia dato il via a pratiche del tutto lesive, come spesso succede, sulla popolazione straniera. Nel momento in cui si sdogana la possibilità di poter andare a prelevare una persona regolare dal centro in cui era ospitato per essere portato su una nave quarantena, allora si sta legittimando la limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali.

 Quali potrebbero essere allora le possibili strade da perseguire in un contesto così ostico?

Nel nostro sistema normativo ciò che potrebbe effettivamente rimuovere una situazione di disuguaglianza istituzionale è la rimozione dell’autorizzazione stessa a permanere, quindi la possibilità per le persone di avere il diritto alla libera circolazione, a viaggiare, a spostarsi. La possibilità, quindi, per il cittadino africano, come per il cittadino italiano, di decidere dove svolgere la propria attività lavorativa o di studio, senza che ciò venga limitato da barriere che sono sia istituzionali che di prassi. Noi sappiamo che molto spesso le norme vengono applicate in modo disomogeneo in relazione alla nazionalità, al censo, alla capacità reddituale ed economica del cittadino straniero che si rivolge alla pubblica amministrazione italiana. La stessa normativa sui visti d’ingresso è una normativa così discrezionale da lasciare alla pubblica amministrazione un ampio margine di decisione sull’ingresso.
La possibilità di liberalizzare l’ingresso e l’uscita dei cittadini stranieri permetterebbe invece di ristabilire una condizione di uguaglianza sulla scelta di spostarsi, di fare un viaggio sicuro, di poter arrivare in tutta sicurezza a destinazione e anche di tornare indietro, qualora lo si voglia. Oggi siamo di fronte a persone che non solo rischiano la vita per arrivare in Italia, ma che in Italia sono anche bloccate, senza la possibilità di poter riprendere il loro viaggio.

Ci sono degli interventi positivi che tutelano i cittadini stranieri? Quale è il ruolo di ASGI in questo senso?

Un intervento sicuramente positivo e attivo è quello di permettere la convertibilità dei permessi di soggiorno: se una persona arriva e ha un permesso di soggiorno per esigenze temporanee, per motivi di asilo o di emergenza umanitaria, può convertirlo in permesso di lavoro e quindi uscire fuori dalla straordinarietà dell’ingresso, senza cadere nel circuito dell’irregolarità, e avendo la possibilità di inserirsi in un percorso di stabilizzazione sul territorio. Altra realtà positiva sono i cosiddetti “permessi art. 18” (Testo unico sull’immigrazione) che vengono concessi alle persone vittime di sfruttamento, anche sessuale, e che si trovano in una situazione di pericolo. È uno strumento incredibilmente utile perché permette alla vittima, che magari è anche irregolare, di uscire fuori dall’irregolarità e di ottenere un permesso di soggiorno che le permetta di emanciparsi da una condizione di sfruttamento.
Quello che quindi noi cerchiamo ogni giorno di fare come ASGI è di ristabilire una minima condizione di parità e di forza giuridica tramite il permesso di soggiorno, che è l’unica possibilità per emergere dall’irregolarità, cominciare una vita dignitosa sul territorio e diventare, da persone invisibili, persone visibili.