«L’unico modo per ridurre le disuguaglianze è favorire la crescita economica. Lo dico da storico. Qual è stato l’unico periodo della storia italiana in cui si è ridotto il gap tra Nord e Sud? Gli Anni Cinquanta, quando le imprese private sono state protagoniste di una straordinaria stagione di ricostruzione dell’Italia, e lo Stato, ovvero la politica, ebbe il merito di non ostacolare queste iniziative».Chiarisce subito in maniera inequivocabile il suo pensiero in merito al tema del contrasto delle disuguaglianze, Franco Amatori, storico dell’economia all’Università Bocconi. E aggiunge: «Il capitalismo ha aumentato le disuguaglianze, ma ha complessivamente migliorato la qualità della vita di tutti, compresa la classe operaia. Non dobbiamo avere paura delle disuguaglianze. Le disuguaglianze sono necessarie. Perchè dobbiamo essere tutti uguali?».
Partiamo dall’inizio. Professore, cosa significa per lei “Uguaglianza”?
Quando io sento parlare di uguaglianza, penso subito alla Rivoluzione francese e alle sue tre parole d’ordine: libertà di pensiero, fraternità per ciò che concerne l’economia, uguaglianza di fronte alla legge. Quindi nessuna discriminazione, ovvero nessuno è diverso dagli altri di fronte alla legge che tutti abbiamo accettato.
Oggi in Italia esiste un problema di disuguaglianze?
Ce n’è una più grande di tutte: il divario Nord-Sud. In realtà il più grande cambiamento degli ultimi cinquant’anni è il progresso del Centro, la cosiddetta Terza Italia con i suoi distretti industriali, Quanto al Sud, oggi è molto più differenziato di quanto credessimo. Oggi abbiamo una sorta di “economia ad Arlecchino”. Però, a mio avviso, il problema principale del Sud resta il dominio della criminalità organizzata. Bisogna sconfiggere questo fenomeno, che mina il pieno sviluppo di tutte le potenzialità del Mezzogiorno. Sono pienamente consapevole che la criminalità organizzata sia diffusa in tutta la Penisola, ma al Sud è un fatto pervasivo e permanente. Per me è la prima cosa da fare.
A suo avviso, l’impresa privata può giocare un ruolo importante nel contrastare le disuguaglianze?
Certamente sì! Nello sviluppo di tutti i Paesi, vediamo due frecce: una che parte dall’alto, la Banca e lo Stato, che sono quelli che Gerschenkron chiamava i “fattori sostitutivi”; un’altra, indispensabile affinché il processo non si fermi, che parte dal basso, che è l’impresa. Questo è stato studiato a fondo. Nella metà dell’Ottocento in Italia, dalla seta è nata l’industria meccanica, le banche, le strade, le infrastrutture… L’intervento pubblico e l’impresa privata sono due ruote di uno stesso ingranaggio. Se non s’incontrano non c’è sviluppo. Per questo, io sono assolutamente in disaccordo con coloro che affermano che sia necessario definire la “missione” delle imprese, quelle partecipate dallo Stato in primis. Io sono fermamente convito che l’unica missione delle imprese è stare sul mercato nel miglior modo possibile, migliorando continuamente le funzioni aziendali e la strategia, aggredendo mercati nuovi, ritirandosi da quelli saturi: questa è la missione dell’impresa!
E l’Europa?
L’Europa procede a strattoni. Il Recovery Fund è stato un passo avanti molto coraggioso. Ma ora emergono tutti i contrari a quest’innovazione. Il vero guaio dell’Unione è il dover prendere le decisioni all’unanimità. Questo ne limita fortemente il suo agire. Ho scritto che l’Europa è una “fratellanza litigiosa”, però dobbiamo andare avanti insieme, perché altrimenti rischiamo di non contare affatto sugli scenari globali. Qualsiasi altra decisione sarebbe equivalente a un suicidio (vedi la Brexit).