Skip to main content

L’inefficienza della disuguaglianza di genere | Paola Profeta

Paola Profeta è professoressa di Scienza delle finanze all’Università Bocconi. La sua ricerca si focalizza sull’economia pubblica, sull’economia di genere, le donne in politica, le politiche per promuovere l’uguaglianza di genere e la leadership femminile. Ha recentemente pubblicato “Gender Equality and Public Policy: Measuring Progress in Europe” per la Cambridge University Press, testo che uscirà in Italia nel 2021 edito da Egea. L’abbiamo intervistata per Dialoghi sull’uguaglianza.

Cosa significa per lei “Uguaglianza”?

Il concetto di uguaglianza per me è legato fortemente a quello di parità: significa dare le stesse pari opportunità a tutte le persone, a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione, dal loro genere, dalla loro condizione economica e da tante altre caratteristiche. Non vuol dire essere tutti uguali, ma vuol dire essere pari alla partenza, per avere le stesse possibilità di raggiungere i propri obiettivi, nel rispetto della diversità.

Cosa si intende quando si parla di “economia di genere”?

Per economia di genere intendiamo i processi economici che hanno a che fare con le differenze di genere e che possono essere analizzati. In particolar modo, le differenze tra uomini e donne in termini di opportunità: dal mondo dell’istruzione al mercato del lavoro, assieme a tutte le condizioni di contesto, familiare culturale e politico, che creano disuguaglianza.

La nostra economia globale sarebbe diversa con un a piena parità di genere? E in che modo?

La nostra economia sarebbe sicuramente diversa e il divario di genere ha un impatto misurabile. La maggior parte delle organizzazioni internazionali, infatti, si è cimentata negli ultimi anni nella misurazione degli effetti che la disuguaglianza di genere comporta a livello di economia globale. Si parla, per esempio, di una perdita di PIL sostanziale nel momento in cui le donne non lavorano o lavorano in percentuale molto minore rispetto agli uomini e rispetto a quella che potrebbe essere la loro piena potenzialità. Per il nostro Paese si parla addirittura di 10 punti percentuali di PIL. Chiaramente dipende dal contesto in cui viene fatta la misurazione, però sicuramente ci sono degli aspetti comuni a tutte queste ricerche che sottolineano come la parità di genere abbia impatto sia sulla crescita economica – sul livello di produzione, e quindi sul PIL – sia sulla possibilità di creare crescita. In altre parole: se più persone lavorano, se più donne lavorano, esistono più risorse, quindi si innesca un circolo virtuoso. Il secondo aspetto importante è quello della cosiddetta crescita sostenibile, che adesso ha una rilevanza particolare; non possiamo più parlare soltanto di crescita, ma dobbiamo parlare anche di sostenibilità. In questo senso, la diversità e l’inclusione, nello specifico parlando di genere, divengono cardini e incidono sull’aspetto “sostenibilità”, che per tante economie non è ancora pienamente considerato. Infine c’è il tema della piena efficienza, perché quando si valorizzano tutti i talenti nelle loro diverse forme, non parliamo solo di equità ed uguaglianza, ma anche di vera e proprio efficienza. Permettere ad ognuno di esprimere le proprie potenzialità fa bene al sistema in generale, perché quando abbiamo dei talenti che non sono valorizzati, oltre a non rispondere ad un obiettivo di uguaglianza, non rispondiamo nemmeno ad un obiettivo di efficienza. Sprechiamo delle risorse che invece, se appropriatamente utilizzate, sarebbero convenienti per l’intera economia.

Perché in Italia e in Europa esiste ancora un marcato gender pay gap?

È una questione di accesso al mercato del lavoro e di sviluppo della carriera. Noi siamo un Paese in cui esistono leggi a tutela dell’eguale trattamento, per cui è difficile pensare che due persone che sono esattamente nella stessa posizione lavorativa, con le stesse mansioni, vengano pagate in modo diverso. Il problema, però, è che uomini e donne non sono quasi mai nella stessa identica posizione, perché tipicamente la donna – a parità di competenza, di formazione, di qualifica, ecc. – viene inserita in posizioni inferiori rispetto a quelle degli uomini. Questo a livello di media: chiaramente esistono sempre gli scarti dalla media, ma ad oggi le donne vengono inserite mediamente in posizioni meno retribuite o in settori meno retribuiti, quindi vengono complessivamente pagate di meno. Questo è vero praticamente da subito: se guardiamo ai laureati, già dall’inserimento nel mercato del lavoro, immediatamente notiamo che le ragazze guadagnano meno degli uomini già dopo un anno, pur avendo le stesse qualifiche, se non superiori. In generale il pay gap si determina soprattutto per il fatto che le donne svolgono mansioni meno retribuite o a volte anche non retribuite rispetto agli uomini, pur a parità di titoli e competenze e questo divario di genere si accumula nel corso degli anni, quindi nel corso della carriera lavorativa, divenendo molto significativo. Inoltre, esiste anche il tema della retribuzione variabile, dove invece manca anche una forma di legislazione: in quei casi è possibile che, pur facendo lo stesso lavoro, la componente variabile è più limitata per le donne rispetto agli uomini.

Come si può intervenire per contrastare questo fenomeno?

Ci sono molte proposte. Una misura importante sarebbe avviare un’operazione di trasparenza sui salari. In questo caso le aziende sarebbero obbligate a pubblicare i dati, cosa che per esempio nel pubblico e in altri settori effettivamente già succede, ma andrebbe applicato anche alle imprese private. Un’altra idea è quella di fornire degli incentivi ad aziende che riconoscono di avere gap di genere e si pongono l’obiettivo di colmarlo. Queste aziende potrebbero poi essere premiate individuando i giusti incentivi e tenendo a mente che già oggi l’obiettivo di colmare disuguaglianze di genere ha un valore reputazionale molto forte. Però è chiaro che tutte le misure devono passare attraverso una garanzia di maggiore trasparenza su un fenomeno che rimane tutt’oggi molto all’interno alle aziende e difficilmente viene reso pubblico.

In Italia esiste una cultura che rallenta il raggiungimento della parità di genere?

Sì, esiste sicuramente una cultura che non favorisce la parità di genere, su diversi livelli. Ci sono anche delle indagini come il World Value Survey e l’European Value Study che vengono svolte a livello internazionale e analizzano proprio quegli aspetti che costruiscono una cultura che genera disuguaglianza di genere. Per fare un esempio, agli intervistati viene chiesto se si è d’accordo o meno con delle affermazioni come: “I bambini soffrono quando le madri lavorano” o “quando c’è scarsità di posti di lavoro è più giusto che vengano assegnati a uomini”. La percentuale di cittadini italiani che si trova d’accordo con queste affermazioni è molto superiore rispetto ad altri paesi. Queste misurazioni della cultura del nostro Paese dimostrano che siamo ancora abbastanza ancorati a questo ruolo tradizionale della donna che, comunque, anche quando lavora, deve sobbarcarsi il carico familiare, la cura dei bambini e della casa. Evidentemente questo diventa poi un ostacolo per la parità di genere, soprattutto sul mercato del lavoro.

Misure “in favore” dei cittadini di sesso maschile, come un aumento della paternità, sono utili al contrasto della disuguaglianza di genere?

Assolutamente sì. Questo aspetto è particolarmente rilevante anche e proprio in base a quello che abbiamo appena detto. L’Istat ci comunica, ad esempio, che abbiamo circa il 74% delle donne che dichiara di occuparsi interamente del lavoro domestico, di cura dei figli, eccetera, senza nessun tipo di partecipazione da parte del partner. Questo chiaramente diventa un problema perché penalizza le madri sul lavoro ma anche banalmente fuori da casa. Quindi, una maggiore partecipazione degli uomini al lavoro domestico e al lavoro di cura sembra essere proprio uno degli strumenti attraverso i quali raggiungere la maggiore parità. Un elemento che muove in questa direzione è quello dei congedi di paternità, che però devono essere esclusivi, pienamente retribuiti e non cedibili alla madre. In questo modo, non solo si permette ai padri di passare più tempo con i figli quando nascono, ma anche di cambiare il punto di vista dei datori di lavoro, equiparando madre e padre nella crescita del figlio e contribuendo a ridurre un atteggiamento discriminatorio che, ad oggi, ha delle ripercussioni sulla carriera lavorativa quasi esclusivamente delle madri. Infine, contribuirebbe a cambiare la cultura di cui parlavamo prima, coinvolgendo maggiormente gli uomini nelle faccende domestiche e nella cura dei figli, fattore che sappiamo essere chiave sia per aumentare l’occupazione femminile ma non solo.  Un altro tema importante e legato ai livelli di occupazione femminile è quello della fecondità: oggi sappiamo, per quanto appaia paradossale, che quando le donne lavorano poco o non lavorano per nulla non fanno neanche figli, perché si innesca un meccanismo negativo di scarse opportunità e scarse risorse. In conclusione, un maggiore coinvolgimento degli uomini potrebbe sicuramente agevolare un equilibrio diverso, in cui le donne riescono sia a lavorare che ad avere figli.

Quali sono le misure più importanti e urgenti da prendere per contrastare le disuguaglianze di genere?

Abbiamo già citato l’importanza di un maggiore coinvolgimento degli uomini nel lavoro di cura e le misure di trasparenza con raccolte di dati più specifiche sulle aziende, ma non possiamo non citare il tema dei servizi come, per esempio, gli asili nido. Questi servizi sono fondamentali per non mettere le famiglie – che spesso significa le donne – di fronte alla scelta tra lavoro e figli. Nel nostro Paese c’è una forte carenza di servizi; recentemente si sono fatti un po’ di passi avanti con l’assegno unico e altre misure, ma siamo ancora carenti. Questo è un discorso fondamentale, perché sappiamo che i divari di genere si amplificano quando guardiamo alle donne madri rispetto la popolazione delle donne in generale; quindi è lì che va che va intrapresa un’azione più specifica e più forte rispetto a quanto non è stato fatto finora. Circa un terzo delle donne, dopo la nascita di un figlio, non torna al lavoro e finisce per abbandonarlo del tutto. Questo è un problema serio che va affrontato assolutamente. Anche in questo caso si può pensare a incentivi per le madri che tornano al lavoro dopo la maternità. Bisognerebbe innescare un processo per cui diventa incentivante tornare non troppo tardi, per non perdere il capitale di esperienza accumulato, ma anche e soprattutto perché sappiamo che più si prolunga il congedo, più difficile poi è il rientro.

La pandemia ha acuito alcune delle disuguaglianze che già erano particolarmente marcate nel nostro paese, tra tutto quella generazionale, territoriale e di genere. Che impatto ha avuto in particolar modo su quest’ultima?

Sta avendo un impatto molto forte, tanto che si parla di “Shesession”, cioè di recessione al femminile. Nel corso degli anni la disuguaglianza di genere stava attenuandosi, ora invece rischiamo di andare in controtendenza e questo in particolare per due motivi: il primo è che i settori molto colpiti dalla pandemia sono settori a forte dominanza femminile, come la ristorazione e il turismo –  a differenza da quello che era successo nella crisi del 2008, che aveva invece colpito soprattutto settori a forte presenza a maschile –; il secondo elemento è l’aumento di carichi di lavoro domestico e familiare che questa pandemia ha causato e che produce un effetto che ricade soprattutto sulle donne. In base alle nostre analisi il 67% di donne dichiara di aver aumentato il proprio carico di lavoro in casa contro il 40% di uomini. Questo significa che, se non subentreranno elementi di controtendenza, la differenza di genere andrà ad aumentare. Uno di questi elementi che può essere un po’ controbilanciante è stato il lavoro da casa che ha costretto anche gli uomini in una situazione domestica più a lungo rispetto al passato, coinvolgendoli di più nell’attività della casa e nella cura dei figli. Per il momento non abbiamo dei dati a suffragio di questa tesi, ma può essere un motivo per sperare in qualcosa di positivo.

Secondo lei, superata la pandemia, avremo l’opportunità di aprire nuove strade per il futuro? In altre parole, avremo imparato una lezione?

Dobbiamo assolutamente imparare da questa pandemia. Una delle cose che possiamo utilizzare da subito, per esempio, è il lavoro flessibile, molto di più di quanto sia stato fatto in passato, migliorando quello che stiamo sperimentando ora e che avviene comunque in un contesto emergenziale dove si perde il concetto flessibilità tipico del lavoro da remoto, che è il motivo per il quale questa misura potrebbe rivelarsi utile. Sicuramente deve rimanere la possibilità di lavorare in modo più flessibile in termini di tempo e di spazio per qualche giorno alla settimana, perché questo potrebbe essere un fattore positivo per la vita personale e indirizzarci verso un maggiore equilibrio in termini di lavoro di cura e domestico. Purtroppo, anche sotto questo aspetto c’è un gap tecnologico tra uomini e donne da colmare, ma è fondamentale arrivare preparati nei confronti di questa rivoluzione tecnologica, che abbiamo accelerato forzatamente in questo periodo, per garantire una maggiore uguaglianza.