Testimonianza di Jago, scultore
per Fondazioni dicembre 2020
È sufficiente guardare la sua Venere per capire l’idea che Jacopo Cardillo, in arte Jago, ha della bellezza: una donna anziana che mostra le sue grazie, svigorite dall’esperienza, con placida accettazione, come se non ci fosse nulla di più normale. «La verità è che tu puoi riconoscere la bellezza dove io non la vedo e io posso fare altrettanto». Risponde così alla domanda: «Cos’è per te la bellezza?» il giovane scultore di fama internazionale. «Ho creato un mio percorso e sto continuando a costruirlo – spiega – perché non mi sono mai riconosciuto nel contesto artistico delle gallerie, quello “accademico” che molti dicono sia quello “giusto”. Non ho voluto fare parte di quel mondo, perché quello che amavo fare ne sovvertiva le regole e non era giusto imporre a me stesso dei limiti, come imporre al sistema il mio modo di pensare e agire».
Dopo aver lavorato per anni a New York, Jago si è stabilito a Napoli e ha aperto il suo laboratorio al Rione Sanità a cui ha donato la sua opera “Il figlio velato”, oggi esposta presso la Cappella dei Bianchi, all’interno della chiesa di San Severo fuori le mura. «Io ho bisogno di bellezza» dichiara lo scultore. «Ma della bellezza che dico io, quella che mi serve per stare bene. Mentre facciamo questa intervista ho di fronte una pianta illuminata da uno spiraglio di luce che entra da sotto il Ponte della Sanità: questa per me è bellezza. Quella che mi garantisce di stare bene con me stesso. Io credo sia importante avere la propria idea di bellezza, senza tentare di convincere gli altri che lo sia. A volte può valere anche solo per te e per nessun altro».
Le sculture di Jago possiedono una potenza comunicativa molto intensa, le forme realistiche ricavate dal marmo celano fra le loro pieghe una vibrante verità, che arriva dritta all’anima dello spettatore che ne interpreta il significato. «In fondo siamo tutti spettatori e questo periodo storico ci ha resi ancor più consapevoli del nostro stato “passivo” di osservatori. Tuttavia, lo spettatore è anche il protagonista nell’arte, perché è colui che osserva e che dà significato all’opera. È per questo che io non spiego le mie creazioni, non esplicito le mie idee che celo nell’opera, perché nel momento in cui le racconto, le andrei a snaturare. L’arte è un linguaggio e se devo spiegarlo, allora c’è un problema, c’è un fallimento. La verità è che il significato dei miei lavori è quello che lo spettatore ci vuole trovare».
L’ultima sua opera, che ha scosso l’opinione pubblica e animato le capacità interpretative della comunità, è stata la scultura raffigurante un bimbo rannicchiato in posizione fetale e con un polso incatenato al centro di piazza Plebiscito a Napoli a cui lo scultore, appunto, non ha mai voluto dare spiegazione. «Non so dare una definizione di arte – spiega l’artista -. Tuttavia so che quello che faccio interviene nella società e incentiva la comunità a “partecipare” e a “condividere”. Ritengo che l’arte possieda anche un “valore economico”, perché può generare ricchezza distribuita e condivisa.
Quando faccio “un gesto” (non voglio chiamarlo opera d’arte perché le mie creazioni non le reputo tali), rivolto alla comunità a cui appartengo, il beneficio è indubbiamente mio personale, perché riesco a reinvestire su me stesso culturalmente e a livello materiale, ma anche la comunità riesce a vivere di quello che creo, perché il gesto attrae turisti e genera lavoro. Inserirsi nella comunità in cui si vive, contribuendo al benessere di questa, è “fare arte”. In questa ottica, io ritengo che qualunque lavoro utile alla comunità, anche spazzare le strade per esempio, sia una forma d’arte».
Dalla rivista Fondazioni novembre-dicembre 2020