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Impresa sociale. Il lucro non è il suo fine

L’economia del profitto non coincide necessariamente con una società in cui il benessere sia diffuso. Ormai lo sappiamo; e non è questione di ideologie. Termini come responsabilità sociale d’impresa, economia sociale, sussidiarietà sono sempre più diffusi e la contaminazione culturale tra profit e non profit è il concime di cui può alimentarsi un autentico cambio di rotta per lo sviluppo del mondo contemporaneo. Di questo sembrano convinti la gran parte dei relatori intervenuti al convegno organizzato dall’Acri e dal Forum del Terzo Settore, il 26 novembre a Roma, sul tema “L’impresa sociale tra valori, nuovi bisogni e innovazione per lo sviluppo dell’economia sociale”; fra gli altri il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Giuliano Poletti, che ha dichiarato: «Questo variegato e complesso mondo (n.d.r. il non profit) è in condizione di candidarsi per un cambiamento profondo di tutta la società italiana». Il volontariato, l’associazionismo, l’impresa sociale sono importanti ma – ha spiegato – spesso sono indicati come “l’altra economia o l’altra società”; sono invece «il modo fondamentale stesso di fare le cose. Ciò che abbiamo davanti, adesso, è un’opportunità di dire che non è l’altra economia, ma è proprio quella che noi vogliamo. Lo sforzo che dobbiamo fare è provare a pensare che questo mondo è parte essenziale dell’insieme». Una parte importante, che in Italia conta più di 300mila soggetti, capaci di fecondare un vero sistema di Welfare Society, basato sul principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 Cost.) e sui doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.). Nel contesto di una crisi che spinge a ripensare i modelli di sviluppo, fra tutti i soggetti del Terzo Settore cresce sempre più, in Italia e all’estero, l’attenzione per l’impresa sociale: una figura giuridica in cui si è definitivamente distinto il concetto di imprenditoria da quello di finalità lucrativa. Si è cioè riconosciuta l’esistenza di imprese con finalità diverse dal profitto, il cui fine ultimo sia, invece, un obiettivo di interesse generale. L’impresa sociale, dunque, fa utili, ma il lucro non è il suo fine. E il suo valore aggiunto e distintivo sta nell’alto contenuto relazionale che genera nell’offerta dei propri servizi (sempre di utilità sociale), nella capacità di fare rete con altre realtà del Terzo Settore, nell’ancoraggio a valori quali la giustizia sociale, la democraticità dell’organizzazione, la riduzione delle diseguaglianze, il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione. L’impresa sociale, quindi, «come paradigma non tanto per l’impatto sull’economia, ma perché è un metodo, elemento per produrre valore d’uso, di scambio e di legame. Sfida fondamentale per rigenerare comunità, luoghi e istituzioni», così all’incontro Paolo Venturi di Aiccon. E su questo è pienamente d’accordo il direttore generale dell’Acri, Giorgio Righetti, che ha concluso: «Non credo che la ripresa possa essere spinta dall’economia sociale. Se viene ben venga, ma non è il fine principale del non profit. Non possiamo creare aspettative legittime, ma sovrastimate; se si spinge troppo sul pedale dell’aziendalismo rischiamo di buttare a mare un sistema di valori».


da “Fondazioni” novembre-dicembre 2014