Professore ordinario di politica sociale nel Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, Cristiano Gori è stato ideatore dell’Alleanza contro la Povertà in Italia, della quale è stato coordinatore scientifico sino al 2019. Partendo dal suo ultimo libro “Combattere la povertà: L’Italia dalla Social card al Covid-19”, pubblicato quest’anno da Laterza, lo abbiamo intervistato per capire quanto il fenomeno sia cambiato negli anni, l’efficacia delle politiche sociali di contrasto alla povertà e il nuovo ruolo che il Terzo settore ricopre nella società odierna.
Cosa è per lei “Uguaglianza”?
Per me, nell’Italia di oggi, non esiste una risposta assoluta. Innanzitutto, però, ritengo si debba parlare di uguaglianza di opportunità: fare in modo che si vada il più possibile verso una riduzione delle disuguaglianze lavorando sulle condizioni di partenza della vita di ognuno. Questo tema è fondamentale, soprattutto in Italia, dove c’è una “riproduzione generazionale” molto forte delle disuguaglianze. E lo è in particolare in questa fase storica, perché il momento di crisi enfatizza le disuguaglianze: chi già aveva risorse se la cava meglio, chi ne era carente si indebolisce ancora di più. Poi, bisognerebbe parlare di quanto l’azione statale sia in grado di contrastare le disuguaglianze. Le domande, per esempio, potrebbero essere: le misure antiCovid19 hanno promosso l’uguaglianza? Lo hanno fatto in riferimento alle diverse generazioni e alle molteplici posizioni nel mercato del lavoro? Le risposte, per ciascuna categoria, sono state molto diverse e spesso le categorie più protette, come i dipendenti a tempo indeterminato o quelli pubblici, sono stati più tutelati rispetto alle categorie meno protette, come i lavoratori autonomi e i collaboratori. Quindi, in una fase socio-economica così difficile, dove il ruolo dell’azione pubblica è molto rilegittimato, ragionare di uguaglianza significa anche ritenere che le risorse pubbliche siano una condizione necessaria ma non sufficiente, tutto dipende dal modo in cui vengono distribuite.
Lei ha parlato della “povertà dei soliti noti”; in che modo negli ultimi anni la povertà è cambiata in Italia?
La povertà, fino alla crisi del 2008, si concentrava in alcuni gruppi sociali: nel Meridione, nelle famiglie numerose e nelle famiglie senza nessun lavoratore. Se in famiglia un componente lavorava si era “salvi”. Dopo il 2008, la povertà è cresciuta nel Sud ma si è diffusa anche nel Centro-Nord, tra le famiglie più piccole, e nelle famiglie di lavoratori. Mentre prima la difficoltà economica delle famiglie cresceva in maniera significativa tra il secondo e il terzo figlio, oggi cresce tra le famiglie senza figli e quelle con uno. Inoltre la metà delle persone povere vive in una famiglia in cui uno dei membri lavora. Il motivo è la precarizzazione del mercato del lavoro. Quindi, la povertà è cresciuta tra i soliti noti ma, proporzionalmente, il tasso di povertà si è alzato maggiormente tra i gruppi sociali prima considerati più al sicuro. Inoltre, se prima la povertà era ancora diffusa tra gli anziani, ora la sua crescita tocca le fasce d’età più giovani: il tasso più alto di povertà vale per le persone da 0 a 17 anni. Riprendendo il discorso sull’uguaglianza nelle condizioni di partenza, vale ormai la regola inversa: più anni hai, meno probabilità hai di essere povero.
Perché la povertà è diventata un tema politico solo in tempi recenti?
Le risposte risiedono su due temi: il fenomeno povertà e le culture politiche. Il fenomeno era meno diffuso prima del 2008, ed era circoscritto ad alcune aree della società. Quando il fenomeno ha cominciato a diffondersi su tutta la società, il sentimento di insicurezza è diventato molto più forte e questo ha portato a una maggiore sensibilità politica. Ma se vogliamo comprendere il perché sia cresciuta la sensibilità politica negli ultimi anni, non dobbiamo limitarci ad analizzare la crescita della povertà, ma dobbiamo tenere conto anche del mutamento nella composizione dei poveri e della sua maggiore trasversalità.
Tra le culture politiche, le più sensibili al tema della povertà erano quella della sinistra e quella cattolica, per due motivi opposti. La sinistra ha sempre fatto propria la concezione dei diritti sociali come diritti di natura lavoristica: i tuoi diritti sociali dipendono dalla tua posizione nel mercato del lavoro. Per questo la sinistra si concentrava sugli occupati di oggi e quelli di ieri, i pensionati. Prevalentemente, si occupava degli lavoratori in “posizione standard”, i lavoratori dipendenti nelle posizioni più protette e tutelate. Fortunatamente, la sinistra si è resa conto che la parte di società che rappresentava diventava così sempre più piccola, perché quarant’ anni fa i “lavoratori standard” erano la stragrande maggioranza sul mercato del lavoro, oggi non lo sono più. Quindi, la sinistra ha cominciato ad allargare i suoi orizzonti e a diventare sensibile alla povertà. Il mondo cattolico, invece, fino all’ascesa di Papa Francesco nel 2013, promuoveva un’attività di impegno e di pressione su altri temi eticamente sensibili: la nascita, la morte e la famiglia. Non l’inclusione sociale dei deboli, che era lasciata alle attività del Terzo Settore sui territori, come la Caritas. Negli ultimi anni, invece, da una parte delle realtà cattoliche vicine alle comunità, si sono cominciate a rivendicare iniziative più strutturate da parte della Chiesa, perché la loro assistenza non risulta più sufficiente a sostenere le fasce più deboli.
Le politiche per contrastare la povertà stanno funzionando?
Il Reddito di Cittadinanza è una misura che ha molti problemi sul modo in cui è stata disegnata: esclude alcune aree di bisogno, in particolare stranieri, famiglie numerose e famiglie del Settentrione. Inoltre, il tentativo di intrecciare una politica sociale con una politica del lavoro ha comportato delle difficoltà nella gestione effettiva delle risposte da parte dei centri dell’impiego. Tuttavia, rispetto alla misura precedente, il Rei (Reddito di Inclusione), che era una misura classica sulla povertà e riusciva a toccare 350mila famiglie, il Reddito di Cittadinanza, è arrivato a 1,1 milioni di famiglie. Pensiamo se non ci fosse stato durante la pandemia!
Che cosa vuol dire essere “lobbysti dei poveri”?
Secondo me essere “lobbysti dei poveri” è fondamentale. Il motivo per cui ho ideato l’Alleanza contro la povertà, infatti, è perché l’Italia, rispetto agli altri paesi, è un paese dove le lobby hanno una particolare influenza sulle decisioni pubbliche: creare anche la lobby dei poveri era necessario. Per fare pressione sul decisore, con l’Alleanza, abbiamo utilizzato due leve: la pressione politica, mettendo insieme tanti soggetti sociali, e la competenza tecnica, la capacità di presentare proposte molto dettagliate.
Mentre sulla prima leva c’è un consenso diffuso, la competenza risulta sottovalutata. Molto più di quanto si pensi, invece, la conoscenza e la competenza sono armi politiche. In questo senso vanno le coalizioni sociali, che possiamo considerare un fenomeno peculiare di questa fase storica. Le coalizioni sono gruppi di associazioni che lavorano insieme agli esperti dei diversi settori, cercando di tenere il doppio asse: il saper fare delle associazioni nei territori e il sapere dell’Università e della tecnica degli esperti. Per questo sono capaci di fare pressione e di costruire proposte concrete. Infatti, le coalizioni sociali sono considerate, da alcuni, un sintomo della debolezza del mondo politico-istituzionale di proporre ed elaborare proposte di welfare; per altri, sono un arricchimento sociale perché rappresentano una voce esterna capace di intercettare i bisogni, di fare pressione e di presentare proposte.
Lei crede che la pandemia abbia finalmente portato all’attenzione l’importanza di contrastare le disuguaglianze e di tutelare i più fragili affinché la comunità tutta migliori?
Il messaggio è arrivato, sì, ma che questo si sia tradotto in risposte opportune ancora lo so sappiamo. Prendo come esempio un tema per me significativo: l’assistenza agli anziani non autosufficienti. Storicamente, è un tema poco considerato in politica, ma la tragedia della pandemia ha offerto un’opportunità, perché lo ha portato all’attenzione, come mai prima. Questo si tradurrà in migliori politiche pubbliche? Due sono le risposte che sono riuscito a darmi. In primo luogo, dalle crisi, i sistemi di welfare non possono uscire uguali a prima, escono migliori o peggiori. Quindi, diventano l’occasione per superare una serie di resistenze al cambiamento, oppure rafforzeranno la criticità che le caratterizzano. Il perpetuare le criticità può accadere anche con un incremento di risorse economiche. Per questo, la grande paura di oggi è che la nuova legittimazione dell’intervento pubblico porti a riprodurre vecchi difetti, ma su scala maggiore perché ci sono più fondi. In secondo luogo, per cambiare, le politiche pubbliche devono cambiare velocemente. Se il cambiamento non si verifica già dal prossimo anno, o fra due anni, non avverrà più perché qualsiasi sistema politico-sociale ha una tendenza a riprodurre sé stesso. Quindi, c’è un momento di esplosione dopo l’inizio della crisi dove esiste una reale possibilità di intraprendere un’altra direzione ma, se non ci sono attori che danno questa impulso, si ritorna alla strada precedente.