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Il valore delle differenze | Daniela Oliva

Daniela Oliva è presidente dell’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS). Di seguito la sua intervista per Dialoghi sull’Uguaglianza.

Cosa significa per lei “Uguaglianza”?

La ricerca dell’uguaglianza ha ispirato, e continuerà a ispirare ancora per molto tempo, le azioni delle persone. Quello di “Uguaglianza” è un concetto lodevole, rassicurante, che promette facilità di intenti, di relazioni, di vita. Solo in tempi relativamente recenti l’idea di uguaglianza si è evoluta nel concetto di “pari opportunità”. Dunque, l’importante non è “essere uguali”, ma avere le medesime (uguali) opportunità dal punto di vista sociale, lavorativo, relazionale, di vita, insomma. Concetto che sposta l’impegno dal cercare di rendere tutti uguali (impresa evidentemente poco praticabile) al cercare di offrire a tutti le stesse opportunità. Anche questa, tuttavia, impresa ardua visto che le opportunità si presentano più facilmente a chi (o sono più facilmente valorizzabili) da chi ha certe caratteristiche rispetto ad altri. In questo quadro complesso non si è ancora trovata la strada giusta perché le evidenze empiriche hanno ben mostrato come non sia sufficiente creare le condizioni (normative, di contesto, sociali) affinché tutte le persone possano avere le stesse opportunità e affinché queste si traducano in realtà effettiva. Un aiuto in questo complicato quadro possiamo trovarlo se allarghiamo lo sguardo. Il concetto di uguaglianza è positivo solo fra gli umani, mentre in natura la diversità è il fattore di successo, quello che consente la sopravvivenza e l’evoluzione delle specie che entrano in relazione tra di loro creando ecosistemi equilibrati. Dunque, forse il vero problema è che non siamo sufficientemente attrezzati a comprendere e valorizzare la diversità, la differenza fra gli umani. Non parliamo di accettare, ma di capire le grandi potenzialità non solo di sopravvivenza, ma di evoluzione e innovazione che sono legate alla ricca varietà degli umani e delle società che hanno costruito. Ecco, credo che “Uguaglianza” per me significhi comprendere e ricercare “il valore delle differenze”.

Chi già viveva in condizioni di fragilità prima della pandemia da Covid-19 ha attraversato un peggioramento delle proprie condizioni. In che misura e chi?

La pandemia ha peggiorato le condizioni di tutti, a prescindere. Certo, chi già aveva difficoltà di qualche natura, non ha migliorato la propria condizione. Ma faccio fatica a distinguere tra fragili e non fragili. Tra “chi ha avuto un impatto maggiore” e “chi meno”. Perché la condizione di fragilità non è statica. E non è necessariamente legata alle sole caratteristiche di una persona, ma varia in funzione del contesto in cui si vive. Certo ci sono condizioni che ti collocano potenzialmente nella categoria “fragilità”. Se non hai un lavoro sei tendenzialmente fragile, ma lo sei di meno (o per niente) se appartieni ad una famiglia agiata. Una persona anziana è potenzialmente fragile: ma lo è di meno se in buona salute e con una vita attiva. Oltre alle condizioni personali ci sono, infatti, le condizioni di contesto che possono aggravare o meno la situazione. Fermo restando che la pandemia ha democraticamente colpito tutti, indistintamente e trasversalmente, io credo che siano state le scelte su come contrastare l’emergenza che hanno stabilito “chi avrebbe pagato di più”. Ad esempio, la chiusura delle scuole ha avuto un impatto molto negativo sulle donne e sui giovani piccoli e grandi. Nel primo caso peggiorando il carico di cura e/o il mantenimento del lavoro (e, nei contesti più difficili, esponendole maggiormente a episodi di violenza domestica). Nel secondo caso con effetti negativi sulle competenze, la socialità e l’accesso stesso alla formazione per quanti vivevano in famiglie economicamente deboli e con scarsa o nulla alfabetizzazione digitale che ha avuto come effetto un aumento importante di abbandoni scolastici. Anche le scelte di chiudere alle visite esterne le strutture socio-sanitarie ha condannato le persone anziane ad una solitudine negli ultimi tempi di vita che, forse, hanno poco compreso e apprezzato. E poi le persone immigrate che hanno sperimentato una doppia fragilità non potendo accedere ai dispositivi compensativi e/o al lavoro in famiglia.

 In seguito alla pandemia politiche di flessibilità nel mondo del lavoro sono state attivate in tutta Europa. Lo smart working che tipo di impatto in termini sociali ha avuto sulla popolazione? Queste politiche verranno incrementate anche in futuro?

Lo smart working non è nato con il COVID. L’idea di un lavoro flessibile a distanza (telelavoro e smart working), ma anche la flessibilità organizzativa e oraria in azienda sono stati temi abbastanza centrali nel dibattito di questi ultimi anni, in Italia come in Europa. Non c’è dubbio che la pandemia abbia impresso un ritmo del tutto anomalo a questo processo, ma la questione è proprio questa, ovvero fino a che punto gli stati di emergenza (non solo sanitari) sono in grado di condizionare in maniera significativa i modelli organizzativi e culturali che governano il mondo del lavoro e l’organizzazione della società. Tralasciando le riflessioni sulla natura dello smart working (o meglio, home working) sperimentato in questi mesi, io credo che si tornerà progressivamente verso una condizione più vicina alla situazione pre-COVID. Ovvero, là dove si erano già avviati dei processi in questa direzione probabilmente potremo rilevare una forte accelerazione, mentre là dove il tema restava ancora sconosciuto probabilmente potremo rilevare un diverso interesse e una maggiore apertura. Da questo punto di vista ciò che è accaduto nella Pubblica Amministrazione è abbastanza esemplificativo: la quota di smart working (questa volta regolamentato) sarà, almeno sulla carta, maggiore di prima, ma certo non si potrà affermare che sarà dominante. Quanto all’impatto sui singoli lavoratori e lavoratrici la questione è più complessa e legata, da un lato, ai settori di attività, alla natura pubblica o privata e alla classe dimensionale delle aziende. Dall’altro è fortemente legata anche al genere: non c’è dubbio che lo smart working abbia avuto ripercussioni maggiori sulle lavoratrici piuttosto che sui lavoratori. Maggiore conciliazione, ma anche maggiori carichi di lavoro. E, comunque, non bisogna dimenticare che le relazioni umane, sul luogo di lavoro, non significano solo socialità, ma maggiore produttività, capacità progettuale e creatività. Insomma, smart working sì, ma “con juicio”.

 Pari opportunità di genere: a che punto siamo in Italia?

Prima dell’emergenza COVID, avrei affermato, con abbastanza certezza che, in questi anni sono stati fatti molti passi avanti grazie, in particolare, alle politiche e alle risorse messe in campo dall’Europa. Purtroppo l’emergenza COVID ha evidenziato la fragilità di queste conquiste. Non solo si è interrotto il percorso di miglioramento della condizione femminile, ma, anzi, le scelte fatte per contrastare la pandemia sono andate tutte, con molta coerenza, è il caso di dirlo, nella direzione di sacrificare la componente femminile ricollocandola là dove, evidentemente, si è sempre pensato che dovesse stare, ovvero a casa, impegnata nella cura di minori e anziani. E la colpa, francamente, non credo sia da addossare al virus che, come abbiamo visto, ha democraticamente colpito in modo trasversale aree geografiche, paesi, generi e classi sociali. Dunque, pur apprezzando i tentativi di “porre rimedio”, appare chiaro, a mio avviso, che si debba ipotizzare un cambio di strategia, diversi metodi, strumenti e politiche in grado di “reggere alle tentazioni”. L’uguaglianza, le pari opportunità, il valore delle differenze non sono moneta di lusso che ci si può permettere finché le cose vanno bene e che, appena cambia il vento, si sospendono o, peggio, si annullano. Perché se accade così significa, banalmente, che non si è verificata quella evoluzione dei modelli culturali e sociali in grado di garantire gambe solide alle conquiste. Che fare? La proposta che ho fatto in altre sedi è di affiancare alle politiche e alle strategie di sostegno alle pari opportunità di genere e alla valorizzazione, in particolare, del lavoro femminile, politiche regolatorie, norme e leggi che “impongano” il rispetto, quantomeno, dell’equilibrio di genere in tutti gli ambiti possibili. Ciò fino al momento in cui non saranno state in grado di influenzare e modificare significativamente stereotipi e modelli socio-culturali. Mi piace? No! ma credo che si debba accelerare e consolidare questo processo.

Un buon welfare aziendale quanto impatta sulla società? Il Covid ha determinato una svolta in questi termini?

L’impatto del welfare aziendale sulla società? Elevato. Molto più di quello che ci si immagina. E il Covid ha contribuito ad aumentare la gamma dei dispositivi offerti dalle aziende. Fino a qualche anno fa era patrimonio di grandi aziende e management illuminati. Oggi sta diventando una realtà concreta anche nelle imprese di medie dimensioni. Certamente il welfare aziendale prevede servizi molto diversificati tra di loro e non tutti hanno lo stesso impatto sulle singole persone, sulle famiglie e, più in generale, sulle comunità locali. Una flessibilità oraria ha impatto diverso da un nido aziendale. Tuttavia, attraverso il welfare aziendale oggi diventato anche strumento di contrattazione, le imprese stanno diventando una parte importante di quello che possiamo chiamare “sistema di welfare condiviso”. Definizione che preferisco rispetto a quella di welfare integrativo perché il welfare aziendale ha una criticità di fondo, ovvero è un’opportunità che coinvolge solo chi ha un rapporto di lavoro dipendente e neanche tutti. Per quanto diffuso, infatti, il welfare aziendale non c’è e/ o varia in funzione della classe dimensionale, del settore di attività, del contesto geografico e anche della sensibilità dell’imprenditore e/o del management. Dunque, è un’opportunità di welfare integrativo rispetto a quello universalistico garantito dal nostro Paese, ma solo per alcune fasce di popolazione più “garantite” e che vivono in contesti più favorevoli. Preferiamo, dunque, porre l’accento sulla dimensione di welfare condiviso pensando alle sempre più numerose esperienze in cui il welfare aziendale viene sviluppato in accordo con le istituzioni in modo che anche la comunità locale nella quale opera l’azienda possa averne dei benefici. E’ un aspetto rilevante perché in qualche modo “compensa” quello squilibrio messo in luce rispetto alle diverse opportunità che il welfare aziendale rappresenta rispetto all’insieme della popolazione, anche solo lavorativa.

Quali sono le azioni e gli strumenti che maggiormente facilitano l’integrazione socio-sanitaria?

L’integrazione socio-sanitaria è un mantra che si ripete ciclicamente da anni, con fasi alterne di ottimismo (e contestuale diffusione di buone pratiche) e pessimismo (con contestuale denigrazione sull’impossibilità di superare le pastoie di una burocrazia intaccabile). Io credo che uno, se non il principale ostacolo all’integrazione delle politiche pubbliche (non solo quelle socio-sanitarie) sia dovuto al fatto che si è ideologizzato il concetto di integrazione assumendo che sia “buono” di per sé, a prescindere. Premesso che l’integrazione socio-sanitaria un po’ esiste e in vari contesti funziona anche abbastanza bene, io credo che sarebbe utile riflettere su “quando” e “perché” l’integrazione rappresenta un valore aggiunto e, dunque, va perseguita con forza e con tutti mezzi. E quando, invece, se ne può anche fare a meno o è più opportuno farne a meno. Perché l’integrazione costa: tempo, fatica, energie. E, in alcuni casi, quando ci troviamo di fronte a due politiche che hanno forza e rilevanza differenti c’è anche il rischio che l’una prevalga sull’altra. Parte delle difficoltà di integrazione anche sul versante socio-sanitario sono riconducibili al timore che “il sanitario” prevalga “sul sociale”, notoriamente più debole dal punto di vista delle risorse e della rilevanza sociale. Detto ciò, oltre a tempo, fatica ed energie, l’integrazione delle politiche, in particolare quelle socio-sanitarie, richiede anche competenze specifiche per gli operatori che si devono integrare (e quindi coordinare). Credo che l’esperienza delle èquipe multiprofessionali sia una strada da percorrere, magari perfezionando procedure e processi e le competenze di operatori che non solo devono imparare a “coordinarsi”, ma per farlo devo anche avere contezza di quali sono non solo i ruoli e le funzioni, ma soprattutto le competenze reciproche. Una maggiore contaminazione disciplinare per quanti devono lavorare insieme e integrarsi credo sia necessaria e potrebbe essere la chiave vincente.