Testimonianza di Massimo Bottini
per Fondazioni dicembre 2024
Massimo Bottini è architetto specializzato in restauro e conservazione dei beni culturali. Siede nel Consiglio Nazionale dell’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale), è tra i fondatori di AMODO, l’alleanza per la mobilità dolce ed è presidente emerito di Co.Mo.Do (Confederazione per la Mobilità Dolce). É stato, inoltre, consigliere nazionale di Italia Nostra, l’Associazione della Nazione per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale.
I cammini sono linee linfatiche di un organismo che si chiama Paese, ne compongono la struttura. E l’uomo non è un animale stanziale, è un animale migrante, ovvero camminante, perché nel suo DNA è insita la necessità di muoversi. Ma, per muoversi e viaggiare, ci vuole tempo. Viaggiare significa infatti compiere spostamenti non solo nello spazio ma compiere cammini di conoscenza: dell’ambiente, dell’habitat, del contesto, della storia della nostra società e, per fare questo, e farlo bene, ci vuole tempo. Il tempo e i cammini sono intrinsecamente connessi. Come le rughe sul volto dell’uomo che acquisiscono sempre più profondità con il tempo che scorre, i cammini si strutturano e si consolidano con il tempo e i passi impiegati per percorrerli. Ma quanto tempo? E, soprattutto, quale tempo? Si parla spesso della “giusta velocità”, né troppo lenta né troppo sostenuta. Io credo che, in generale, non esista un tempo giusto, esiste il tempo adatto ed è proprio questo che segna il ritmo dei cammini: un tempo che consente alle persone di interagire con il paesaggio che attraversano e di penetrarne l’intima essenza. La questione dunque è avere tempo. E oggi è una faccenda controversa. L’alta velocità, la frenesia, la necessità di spostarsi nel più breve tempo possibile, ci ha fatto diventare alla stregua di pacchi che si spostano per arrivare a una meta nel più breve tempo possibile e non per godere del percorso. I cammini, invece, trasformano “i pacchi in persone” facendole interagire con ciò che le circonda, assaporando l’autenticità del territorio e ristabilendo il contatto con la comunità che lo abita, fino a rigenerare la mente e il corpo che, altrimenti, si perderebbe nella smania.
“Non esiste un tempo giusto, esiste il tempo adatto ed è proprio questo che segna il ritmo dei cammini: un tempo che consente alle persone di interagire con il paesaggio che attraversano e di penetrarne l’intima essenza”
I cammini sono anche un’efficace risposta all’overtourism, che spoglia il territorio dell’identità primaria. Il turista, che è abituato a ritmi incalzanti – il cosiddetto “mordi e fuggi” -, camminando, diventa “viaggiatore” e, invece di stancarsi, si ricarica. Il cammino non è semplicemente una sequenza di chilometri, ma una sequenza di spazi densi di senso: le stesse soste che si compiono durante il percorso sono cariche di significato perché servono al viaggiatore per prendersi cura di sé, pratica che nel turismo si è decisamente persa. Prendersi cura di sé significa rigenerarsi ed è dunque un momento di catarsi per il viaggiatore che, ristabilendo un equilibrio intimo, riesce a mettersi in contatto anche con il luogo che sta attraversando. La cura parte dal paesaggio, ma arriva alla persona. Per questo dovremmo avere maggiore cura del nostro Paese che, da troppo tempo, è preso in ostaggio dalla frenesia che punta solo a trasformare lo spazio in “spettacolo” e non più in vissuto. Nell’ultimo trentennio si è badato assai poco alla dignità dei luoghi e delle comunità che li abitano. Ma il vero viaggio, il cammino, più sostenibile, più responsabile, più lento, rappresenta un approccio consapevole ai luoghi, alle tracce identitarie, storiche e paesaggistiche che contraddistinguono il territorio, rendendolo un bene culturale in senso pieno. Io credo, dunque, che sia fondamentale considerare i cammini come importanti infrastrutture dolci, al pari delle infrastrutture pesanti, come la rete ferroviaria e autostradale.
Dalla rivista Fondazioni settembre – dicembre 2024