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Il filo che unisce le perle | Giacomo Zanolin

Intervista a Giacomo Zanolin, professore di Geografia presso l’Università di Genova

Che storia hanno i cammini? Come vengono raccontati oggi e cosa rappresentano in questo panorama turistico così variegato e mutiforme? Lo abbiamo chiesto a Giacomo Zanolin, professore di Geografia presso l’Università di Genova, studioso di gli spazi urbani e periurbani, aree naturali protette, turismo e didattica della geografia.

Cosa sono i cammini?

Con il termine cammini si possono intendere molte pratiche. Se vogliamo risalire alla loro origine storica, si ha traccia di queste pratiche da circa la fine dell’800, quando nascono i cammini escursionistici, il cui primo fine è il “camminare” fine a se stesso, ovvero una pratica più sportiva che di altro tipo. Poi questo concetto si è evoluto e negli anni la pratica del cammino si è rivestita di sacralità e, cammini e pellegrinaggi, si sono spesso sovrapposti. Oggi credo che per “cammino” si intenda qualcosa di ben diverso: si tratta di una pratica di turismo culturale, che non è solo finalizzata al raggiungimento di una meta, ma l’obiettivo è affrontare un percorso attraverso il quale si creano delle forti connessioni tra i luoghi, dei legami indissolubili tra tutte le tappe che costellano questo viaggio. Dal punto di vista spaziale i cammini privilegiano le aree marginali del territorio. Chiaramente non prediligono le mete turistiche più gettonate e richieste. Tuttavia è fondamentale sottolineare che i cammini non sono “viaggi a contatto con la natura”, come moltissimi oggi li descrivono. Questo racconto è assolutamente sbagliato.

Quindi i cammini vengono raccontati in maniera errata?

Spesso capita e il rischio è di farsi un’idea del tutto sbagliata di queste pratiche qualora non si conoscano direttamente. Mi succede di assistere al racconto dei cammini incentrato solo ed esclusivamente sul contatto con la natura. Si fa leva su questa dimensione naturale come se il paesaggio naturale che si incontra durante un cammino, esistesse indipendentemente dagli esseri umani e anzi, si pensa, che durante il percorso meno esseri umani si incontrano e meglio è per privilegiare questa dimensione di isolamento quasi “purificatore”. Ricordiamo sempre che la bellezza che appartiene al nostro Paese è incentivata e mantenuta dall’uomo. Se rimaniamo stupiti di fronte alla meraviglia di un paesaggio è anche grazie alla cura che l’uomo dedica a quel paesaggio. I territori sono il risultato del lavoro di generazioni di esseri umani che – nel passato e nel presente – dedicano tempo e cura alla conservazione della bellezza. Quindi i cammini sono strettamente connessi alla scoperta non solo della natura, ma anche delle istituzioni che appartengono a quel territorio, degli attori locali che gestiscono quelle campagne, quei boschi, e di quelle realtà associative che delimitano le aree protette e si impegnano per tutelarne gli ecosistemi. Quindi c’è un lavoro umano che preserva e che mantiene vitale quelle dinamiche ecologiche che si possono apprezzare durante un cammino. Senza il contatto con tutte queste realtà, io credo che il cammino non verrebbe colto nella sua essenza e autenticità.

“Nel racconto che si fa dei cammini si privilegia spesso solo l’aspetto naturalistico. Eppure è l’uomo ad avere cura della natura ed è impensabile concepire un cammino senza il contatto diretto con le istituzioni e gli attori locali che rendono un paesaggio apprezzabile” 

In questo senso i cammini possono avere anche un ruolo educativo?

Sì, i cammini possono anche avere una funzione educativa ma, come già detto, è necessario raccontarli in modo efficace e veritiero. Io credo che il turismo in generale abbia un potenziale didattico e, in particolare, questo tipo di pratiche turistiche deve assumersi questa responsabilità di utilità comune. La scuola permette di fare pochissime esperienze concrete sul territorio, quindi il turismo può riempire questo vuoto, diventando una sorta di pratica di educazione informale. Dunque, sono convinto che pratiche come quelle dei cammini, abbiano un enorme potenziale didattico ed educativo soprattutto per gli italiani che possono conoscere territori prima sconosciuti e quindi comprendere più in profondità le proprie radici, entrando in contatto con realtà locali nascoste, non particolarmente conosciute. Certamente è necessario riportare l’autenticità di queste esperienze che tra l’altro sono talmente suggestive e interessanti che non c’è alcun motivo di modificarne il racconto alterandone le caratteristiche.

Negli ultimi anni si sente spesso parlare della “pedagogia del viaggio”. Cosa vuol dire?

La pedagogia del viaggio è quel ramo degli studi pedagogici che si sofferma sullo studio e l’analisi della natura formativa del viaggio in quanto esperienza di apprendimento e di sviluppo del soggetto. Questa materia si basa sulla convinzione che l’esperienza diretta rappresenti una fondamentale fonte d’istruzione per l’individuo e sulla convinzione delle enormi potenzialità di una forma di insegnamento diversa da quella classica. In quest’ottica, il viaggio rappresenta un’opportunità per apprendere, attraverso l’osservazione di luoghi e dei paesaggi, l’interazione con la comunità locale e con i compagni di viaggio e tramite l’immersione in nuove culture, tradizioni e prospettive. In questo senso i cammini sono l’esempio più virtuoso. Inoltre, c’è sicuramente una grossa produzione editoriale, da questo punto di vista, che contribuisce a costruire questa retorica didattica dei cammini che innesca la nascita di una comunità di persone che si identificano in questa pratica e che attivano scambi e confronti.

“Pratiche come quelle dei cammini hanno un enorme potenziale didattico ed educativo soprattutto per gli italiani che possono conoscere e quindi comprendere più in profondità il proprio territorio”

I cammini possono essere un’alternativa al turismo di massa?

I cammini vengono promossi proprio come forme di turismo alternativo rispetto al turismo di massa. E questa è la chiave del loro successo. Tuttavia, io sono assolutamente convinto che non possano rappresentare una risposta dal punto di vista quantitativo a questo tipo di problema. I cammini non possono reindirizzare una grande quantità di flussi turistici, ma rimangono una preferenza di nicchia. Allo stesso tempo, però, da un punto di vista micro, i cammini impattano in maniera importante sull’economia locale dei piccoli centri. Faccio un esempio: un bed and breakfast, che si trova lungo un percorso di un cammino frequentato, ne trarrà un enorme beneficio. Ma si tratta di un’economia piccola che non cambia le direzioni del turismo di massa. Non essendoci dunque un forte impatto economico e di conseguenza sociale rispetto a queste attività, la lancetta non si sposta più di tanto.

“L’Italia è piena di perle distribuite sul territorio. Il turismo tradizionale va a visitare la singola perla. Il vantaggio dei cammini è creare valore anche lungo il filo”

Secondo lei i cammini possono valorizzare le aree interne?

I cammini possono contribuire a valorizzare le aree marginali perché non focalizzano l’attenzione solo su un elemento di valore, ma distribuiscono il valore in senso lineare. La metafora che uso quando parlo dei cammini ai miei studenti durante le lezioni è quella della collana di perle: l’Italia è piena di perle distribuite sul territorio. Il turismo tradizionale va a visitare la singola perla. Il vantaggio dei cammini è creare valore anche lungo il “filo” di perle, lungo la linea che collega le varie tappe. Quindi, a partire da un centro attrattore che avrebbe una sua potenzialità turistica, i cammini si distribuiscono su un territorio più esteso, esaltando e coinvolgendo delle piccole opportunità turistiche altrimenti non evidenziate, che, spesso, possono rappresentare i momenti più salienti del viaggio.

Dalla rivista Fondazioni settembre – dicembre 2024

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