Intervista a Cecilia Pellizzari, direttrice editoriale del mensile “Scomodo”
Scomodo è un’associazione culturale, un progetto editoriale e un osservatorio di ricerca partecipativa gestito da giovani under30 ma in costante dialogo con le vecchie generazioni. Dal 2016, la comunità di Scomodo si impegna a creare spazi di espressione, condivisione e crescita per le nuove generazioni, costruendo una rete che da Roma si è diramata fino a Milano ed è in continua espansione. Una delle attività centrali è il mensile di Scomodo, che rappresenta una voce generazionale per centinaia di giovani redattori, studenti, creativi, artisti e ricercatori. A dirigere questo lavoro editoriale è Cecilia Pellizzari, anni 25, aspirante giornalista, laureata in Filosofia. In Scomodo ha contribuito in ogni modo, dalla distribuzione dei mensili, alla gestione del conto economico fino al supporto alla ristrutturazione di uno spazio, continuando parallelamente il suo percorso accademico e diventando, infine, direttrice del giornale. L’abbiamo intervistata.
Che rapporto c’è, oggi, tra le nuove e le vecchie generazioni?
Il divario generazionale è profondo e si esprime soprattutto nell’incapacità della politica di comprendere e prestare attenzione alle istanze dei giovani e di trovare delle risposte adeguate. Considerando che l’età media dei candidati alle elezioni europee del 2019 era di 49 anni, si comprende facilmente perché la salute mentale, il cambiamento climatico, l’aumento dei prezzi e tutti gli altri temi, che riguardano e rivendicano i giovani, non siano all’ordine del giorno nelle agende politiche, perché sono ideate e promosse da persone over50. Ma non si tratta secondo noi solo di una questione di età.
E di che cosa di tratta, oltre all’età anagrafica?
Si tratta anche di una questione di intenti. Questo spazio in cui stiamo parlando, Campo Ricerca, in pieno centro a Roma, è uno spazio di Scomodo perché una persona adulta che vive nel quartiere, invece di trasformarlo in Airbnb, assecondando le logiche della gentrificazione, ha deciso di dargli una nuova vita collaborando con noi e creando una grande opportunità per un progetto di ricerca condivisa. Anche il nostro comitato scientifico è composto da membri sopra i 35 anni, che si sono messi in ascolto e a supporto del nostro progetto di ricerca. Così come il nostro advisory board, che si autodefinisce “Silver Line” perché composta da adulti (con i capelli bianchi), sta mettendo a nostro servizio esperienze, competenze e tutta una rete di contatti, dando fiducia alla nostra modalità di lavoro e di indagine che si alimenta e cresce anche grazie a questo dialogo intergenerazionale. Crediamo, dunque, che una scissione o una lotta intergenerazionale non sia funzionale e vada evitata perché il dialogo non solo è possibile ma funziona. Non si può però negare che, oggi, creare un dialogo non sia così facile, dato il modo in cui le nuove generazioni vengono raccontate.
“Il divario generazionale è profondo e si esprime soprattutto nell’incapacità della politica di comprendere e prestare attenzione alle istanze dei giovani e di trovare delle risposte adeguate”
In che modo vengono raccontate le nuove generazioni?
Come generazioni viziate, de “Gli sdraiati”, che godono dei diritti ottenuti negli anni Sessanta e Settanta, che hanno tutto e quindi sono inconcludenti, scendono in piazza senza veri contenuti e non hanno voglia di lavorare. Al contrario, siamo la prima generazione che si trova in condizioni peggiori rispetto ai propri genitori, viviamo in un contesto socio- economico molto complesso che ci è stato lasciato in eredità e di cui dobbiamo farci carico, comprese le conseguenze del cambiamento climatico. La speranza per il futuro è bassissima (altro che giovani spensierati!), non facciamo figli perché non ce lo possiamo permettere, i contratti sono precari, gli stipendi sempre più bassi e abitiamo in stanze, non in case.
Perché allora questa narrazione?
Per deresponsabilizzare la classe dirigente e le generazioni che rappresenta, che ci hanno lasciato questo mondo, e perché in questo sistema vige ancora il “se vuoi, puoi, se ti sacrifichi ce la fai”, continuando incessantemente a proporre un modello individualista di responsabilità, che non prende in considerazione i contesti sociali, economici e politici in cui i giovani vivono. Non a caso aumentano i casi di suicidio tra i giovani con meno di trent’anni, perché se non riesci a realizzarti non solo la colpa è tua ma non sopravvivi, sei fuori. Bisogna invece farsi carico collettivamente della responsabilità delle dinamiche strutturali del mondo che viviamo e degli ostacoli che queste comportano ai percorsi di crescita e realizzazione dei giovani.
“Bisogna farsi carico collettivamente delle dinamiche strutturali del mondo che viviamo e degli ostacoli che queste comportano ai percorsi di crescita e realizzazione dei giovani”
In questa cornice in che modo entra il lavoro di Scomodo?
Scomodo cerca di costruire e ampliare una voce generazionale che non parli però solo ai giovani e che si costruisca anche attraverso il dialogo intergenerazionale. Per questo noi ci impegniamo ad aprire il nostro lavoro all’esterno, andando a ricercare lo scambio di idee e di stimoli attraverso talk, eventi e incontri di diverso tipo, durante i quali le persone ci conoscono e si conoscono, affrontando e discutendo di temi e problematiche odierne, a partire dagli approfondimenti della nostra rivista che, essendo cartacea, passa di mano in mano.
Perché una redazione così giovane ha scelto di pubblicare anche in cartaceo?
Perché il cartaceo è un “collettivizzatore” di persone reali, a partire dalla sua ideazione. Noi, infatti, ci incontriamo per scrivere il giornale, discutiamo dei temi, li approfondiamo insieme. Non solo, il fatto di dover lavorare a un progetto su cui non si può più mettere mano – dopo la sua pubblicazione – infonde un grande senso di responsabilità rispetto a quello che scriviamo. I contenuti online, che sono estremamente efficaci, perché permettono di parlare a un pubblico molto più vasto e dei temi più disparati, possono essere sempre modificati, mentre il cartaceo non permette questa flessibilità e, quindi, impone molta più cura e attenzione. Inoltre, il cartaceo viene sfogliato da quella che noi chiamiamo “la comunità reale”: Scomodo arriva nelle scuole, nelle università, nelle librerie e negli spazi culturali.
“Il lavoro sugli spazi è un’attività cardine per noi, perché consideriamo cruciale creare luoghi in cui le persone possano incontrarsi, riconoscersi, condividere idee, progettare insieme”
Una scelta che si collega anche al vostro lavoro sulla creazione o rigenerazione degli spazi?
Sì, oltre al giornale e alla comunicazione sui social, il lavoro sugli spazi è un’attività cardine per noi, perché consideriamo cruciale creare luoghi in cui le persone possano incontrarsi, riconoscersi, condividere idee, progettare insieme. Lo consideriamo un modello rigenerativo per la comunità, perché dà alle persone la possibilità di attivarsi e di sentirsi parte di un progetto dinamico e di una visione comune. Ci immaginiamo i nostri spazi come dei cerchi aperti dai quali chiunque entri possa dare il proprio contributo generando ulteriori cerchi che vanno ad ampliare la comunità. Vorremmo che, nel tempo, sempre più persone si sentano parte di Scomodo.
Scomodo rimarrà una comunità under30 o crescerà con voi?
Scomodo è un progetto rigenerativo e, per statuto, rimarrà una comunità under30, per mantenere coerentemente la propria finalità: essere uno spazio di espressione, possibilità e crescita per le nuove generazioni. Il nostro compito ora è quindi contribuire a questo percorso, trasmettere quanto imparato e poi lasciare il posto quando raggiungeremo i trent’anni.
Dalla rivista Fondazioni giugno 2024