Intervista a Bertram Niessen, docente e ricercatore
Cosa è cultura e cosa non lo è? Chi lo decide? Possiamo considerare un video su Tik Tok un prodotto culturale? Siamo sicuri che i giovani siano completamente digiuni di forme di partecipazione culturale? Bertram Niessen, docente e ricercatore di sociologia, da molti anni riflette sull’innovazione e la partecipazione culturale e sulle trasformazioni che queste producono sui luoghi delle città. Nel 2012 ha fondato cheFare, “un’agenzia per la trasformazione culturale” che anima la riflessione e il dibattito su questi temi. Il suo ultimo libro si intitola “Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo” (Utet, 2023). L’abbiamo intervistato.
Attraverso i suoi studi, i suoi libri e l’esperienza di cheFare si è fatto un’idea di cosa significhi “partecipazione culturale”?
Partecipazione culturale è un termine ombrello, all’interno del quale vengono fatti ricadere molti concetti diversi. Al suo grado massimo, ovvero quello che riguarda le politiche, si intende la facoltà di decidere della produzione e distribuzione di “oggetti culturali”. Riguarda tutti quei processi volti a stabilire quale tipo di cultura produrre e distribuire; in definitiva si tratta di decidere cosa è cultura e cosa non lo è. E su questo fronte, in Italia, tendiamo ad avere una definizione di cultura molto “tradizionalista”. A un grado più basso, c’è il tema dell’accesso: se non si accede alla cultura, non può esserci partecipazione. Le limitazioni all’accessibilità sono di diversa natura: spaziali, di competenze (tecniche e tecnologiche), ma anche di abitudine, perché a partecipare si impara. L’aspetto più importante, però, è che la partecipazione culturale non può ridursi alla scelta da un catalogo, dovrebbe invece inserirsi in una grande cornice, all’interno della quale si costruisce “capacitazione” o “empowerment”.
In tema di accesso alla cultura, le condizioni di partenza come condizionano la partecipazione dei cittadini?
Le disuguaglianze possono costituire barriere tanto nell’accesso quanto nella produzione di cultura. In primis, penso alle disuguaglianze socio-economiche e di genere. Ma c’è anche il tema dell’età, che analizzerei in due direzioni. Da una parte le persone anziane che fanno fatica a seguire la cultura connessa al digitale, prevalentemente per un aspetto di scarsa consapevolezza e competenza. Dall’altro lato i giovani, che sono fruitori e produttori di forme culturali innovative ma che vengono escluse dalla visione “tradizionalista” ed esclusiva della cultura. Ad esempio, nelle statistiche sui consumi culturali non compaiono mai i video su Youtube, anche se possono avere contenuti culturali e milioni di visualizzazioni!
“La partecipazione culturale non può ridursi alla scelta da un catalogo, dovrebbe invece inserirsi in una grande cornice, all’interno della quale si costruisce empowerment”
Da questo scaturisce un’altra domanda. Quale ruolo ha l’educazione nel creare abitudini al consumo di prodotti culturali?
Siamo nel pieno di una crisi strutturale dell’Occidente (e dell’Italia in particolare) legata al crollo di produzione e trasmissione di competenze culturali alle giovani generazioni. Ne abbiamo conferma dalla conclamata contrazione della capacità di leggere, comprendere e scrivere un testo. È inoltre necessario prendere in considerazione l’aspetto legato a ciò che i giovani considerano cultura. Pensiamo a due esempi. Innanzitutto i cosiddetti “rave party”: rilevanti momenti di musica dal vivo, che costituiscono occasioni di consumo culturale, molto seguiti e apprezzati, ma che non vengono considerati al pari dei concerti. Perché? A questi si aggiungono i contenuti realizzati sui social network come, ad esempio, quelli dei “booktocker”, giovani che presentano i libri con brevi video, ottenendo migliaia di visualizzazioni. È una questione di prospettiva. Io, quando salgo sul treno della metropolitana, e vedo 50 ragazzini concentrati sui loro cellulari, penso di stare osservando 50 persone che stanno interagendo con prodotti culturali (musica, video, testi). Siamo di fronte a forme di consumo – e in parte di partecipazione – culturale di massa. Poi potremmo fare un ragionamento sul tema della qualità, della consapevolezza e della “soggettivizzazione” di questi consumi. Ma questo è un altro discorso.
Cosa vuol dire “esperienze culturali di prossimità”? Come stanno cambiando i luoghi di condivisione della cultura?
Gli spazi culturali di prossimità sono tutti quei luoghi nei quali le forme culturali vengono prodotte pensando a (e, spesso, da) una specifica comunità. Questi spazi esistono da decenni, ma negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera esplosione. Sono luoghi che prendono nomi diversi: nuovi centri culturali, spazi ibridi, spazi socio-culturali, ma sono tutti accomunati dalla caratteristica di essere attivati, gestiti e curati dalle organizzazioni del territorio, con un duplice obiettivo. Il primo è far circolare opere e linguaggi che, generalmente, non vengono distribuiti nei canali tradizionali, per questo ospitano concerti, mostre, performance, proiezioni, workshop, seminari… Il secondo è co-produrre contenuti culturali insieme agli abitanti e alle altre organizzazioni del territorio.
“I giovani sono fruitori e produttori di forme culturali innovative ma che vengono escluse dalla visione “tradizionalista” ed esclusiva della cultura”
E le istituzioni culturali tradizionali come si pongono di fronte a questo fermento?
Ci sono spazi del patrimonio culturale tradizionale (ad esempio alcuni musei) che si stanno aprendo a questa logica prendendo sempre più la conformazione di luoghi di partecipazione e di cultura di prossimità. Uno degli esempi più emblematici sono le Officine Culturali di Catania: un monastero del Cinquecento dei monaci benedettini, che vivono ancora lì dentro, la cui valorizzazione è gestita da una cooperativa che ragiona come se fosse un nuovo centro culturale. E di fatto lo è.
Parliamo di sostenibilità economica. La partecipazione culturale costa. Per questo, la domanda è: a chi compete fare partecipazione culturale? Chi deve farsi carico del suo costo?
Su questo tema esistono due visioni contrapposte. Alcuni ritengono che le organizzazioni che fanno partecipazione culturale debbano essere economicamente sostenibili in maniera autonoma (e quindi diversificare le entrate, puntando sul prezzo del biglietto e sulla ristorazione). Altri credono che la partecipazione culturale fatta seriamente sia economicamente “insostenibile” e, quindi, ci sia sempre bisogno anche di un contributo da parte delle Istituzioni del territorio – tra cui le Fondazioni di origine bancaria – che sia tramite bando, agevolazioni, concessione di spazi… Quella che si sta diffondendo è una via di mezzo, la formula dello “starvation cycle” (ciclo di affamamento) del Terzo settore: la tendenza a sostenere, attraverso contributi liberali, solo una parte dei costi delle organizzazioni, spronando queste ultime a rendersi economicamente sostenibili, ricorrendo ad altre fonti (cioè puntando sul food and beverage e aumentando i costi per l’ingresso agli spettacoli). Tutto questo – dobbiamo esserne consapevoli – comporta una selezione dei pubblici e una riduzione della partecipazione.
“Quando immaginiamo le politiche per favorire la partecipazione culturale ci limitiamo a considerare i bisogni e tendiamo a trascurare i desideri e l’entusiasmo, che è un ingrediente fondamentale affinché questo tipo di interventi funzioni veramente”
Nel suo libro fa riferimento a concetti come “desiderio” e “conflitto”. Che legame hanno con la partecipazione culturale?
Troppo spesso, quando immaginiamo strumenti, politiche, metodi e processi per favorire la partecipazione culturale, ci limitiamo a considerare i bisogni perché sono spesso misurabili. Quello che tendiamo a trascurare sono i desideri e l’entusiasmo della partecipazione, che non è quantificabile nella fase di progettazione, ma che è un ingrediente fondamentale affinché questo tipo di interventi funzioni veramente. Qui entra in scena il conflitto tra razionalità-manageriale-progettuale ed effervescenza-artistica-culturale. Purtroppo, ci siamo ormai abituati a costruire equivalenza tra conflitto e guerra totale. Invece, fino a qualche decennio fa, il conflitto era considerato un elemento costitutivo e inalienabile della vita sociale. Ora, abbiamo eliminato una possibilità di manifestazione del dissenso, del pensiero laterale e della possibilità di manifestare il desiderio di cambiamento e di trasformazione. È un vero peccato, a cui dobbiamo porre rimedio.
Dalla rivista Fondazioni luglio – settembre 2023