Skip to main content

Appennini, colonna vertebrale del Paese | Paolo Rumiz

Intervista a Paolo Rumiz, giornalista, per Fondazioni ottobre 2019

«Ero partito per fuggire dal mondo, e invece ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un’Italia vitale e segreta. Ne ho scritto con rabbia e meraviglia. Meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; «Ma l’energia segreta rischia di scomparire». L’intervista al giornalista triestino Paolo Rumiz un uomo del Nord, mi sono innamorato degli Appennini anche con una vena di tristezza, perché vedo che è un mondo che sta lentamente scomparendo. Però ne avverto l’energia segreta. A volte un’energia negata, dimenticata. Perché in genere la montagna non porta voti, quindi la politica la lascia fuori… rabbia per il potere che lo ignora». Scriveva così, più di dieci anni fa, il giornalista triestino Paolo Rumiz, tornando da un viaggio di 8mila km lungo le Alpi e gli Appennini. Uomo di mare, rimane stregato dalla dorsale appenninica e negli anni successivi continua a percorrerla senza sosta e a raccontarla. Ha seguito il tracciato della Via Appia da Roma a Brindisi, ha scandagliato le cime alla ricerca dei monasteri benedettini in un viaggio che l’ha portato in diversi paesi europei, e ha perfino fondato nel cuore delle Marche un’orchestra giovanile con musicisti provenienti da tutto il continente.

Come è nato il suo interesse per gli Appennini e come ha influenzato il suo lavoro?

Molte delle cose che ho fatto negli ultimi anni nascono da uno “stimolo appenninico”. Il cuore del Paese non sono le Alpi, ma sono gli Appennini. Qui abita un’energia segreta, che ha prodotto negli anni cose mirabili: dal monachesimo alla grande pittura italiana, fino al rinascimento. Ma di questo siamo molto poco consci. Io, che sono un uomo del Nord, mi sono innamorato degli Appennini anche con una vena di tristezza, perché vedo che è un mondo che sta lentamente scomparendo. Però ne avverto l’energia segreta. A volte un’energia negata, dimenticata. Perché in genere la montagna non porta voti, quindi la politica la lascia fuori… Molti dei miei lavori degli ultimi anni sono partiti dal mio incontro con gli Appennini. È partita da lì la mia attenzione per la montagna italiana. È partita da lì la mia idea di fare la Via Appia, scollinando gli Appennini da Roma a Brindisi. È partita da lì la mia idea di portare nel cuore della linea di faglia un’orchestra europea giovanile, che si chiama European Union Youth Orchestra. Si è, infatti, gemellata con l’Università di Camerino, dove ogni estate compie le proprie prove e poi va a suonare in questa periferia del Paese, che è l’area colpita dal sisma. Noi siamo lì, non solo perché avevamo un buon auditorium e perché l’Università ci ha accolto tra le sue braccia, ma anche perché sentivamo il dovere di dare dei segnali di vita e di amore nei confronti di luoghi di cui le istituzioni sembrano essersi dimenticate. Perché noi viviamo in un mondo in cui contano solo i centri e le periferie non sono rilevanti; salvo poi sorprenderci quando queste periferie sfogano la loro rabbia e il loro senso di frustrazione in modo indiscriminato.

Nell’ultimo decennio le regioni del centro Italia sono state colpite da ripetuti terremoti. Oltre ai danni materiali, che impatto ha avuto questo sulle comunità che vi abitano?

Negli ultimi anni una parte degli Italiani si sta purtroppo abituando a un approccio passivo, del tipo “qualcuno da fuori ci toglierà le castagne dal fuoco”, pensando alla Protezione civile o al Governo. Le comunità appenniniche da millenni sono abituate a risorgere dai terremoti, dalle invasioni, dalle pestilenze, per conto loro. Questa energia si sta affievolendo. Quella buona razza appenninica dell’uomo inizialmente un po’ chiuso, ma che alla distanza si fida di te e si rimbocca le maniche è un mondo che sta scomparendo, perché si sta adeguando alle logiche della pianura. Io ho notato che esiste una debolezza identitaria in questo mondo, che piange la propria marginalità, ma contemporaneamente scimmiotta i modelli di sviluppo della bassa. Mentre noi non possiamo dimenticare che la nostra identità abita lì. Secondo me, quello che bisogna fare è identificare i poli virtuosi in cui queste energie si esplicano ancora e incoraggiarli (magari prevedendo forme mirate di detassazione), e lasciarli lavorare. Perché il terremoto ha fatto tanti danni, ma quello che sta distruggendo oggi l’Appennino è la burocrazia e il suo eccesso di regole, che rendono quasi impossibile la ricostruzione. Questa immobilità sta distruggendo l’Appennino molto di più del sisma. Ci vorrebbe una politica creativa, capace di far ripartire tutto.

A fronte di grandi masse di giovani che abbandonano i loro paesi d’origine, mettendo a rischio spopolamento le aree interne, ci sono alcune esperienze in cui i giovani provano a valorizzare l’identità dei luoghi.

Le nuove generazioni sono molto più aperte, pragmatiche e decisamente meno ideologizzate delle precedenti, così riescono a costruire reti a prescindere dalla politica. Ma deve arrivare dal centro un segnale di attenzione. E soprattutto, noi giornalisti dovremmo essere più attenti a queste realtà periferiche, che invece non si narrano. Si gioca sempre sui grandi numeri, mentre l’Italia è una costellazione di piccoli numeri e di diversità. Ed è questo che rende l’Italia unica, agli occhi anche degli stranieri. Perché se la Francia, la Germania, la Polonia sono delle sconfinate campagne, noi siamo una costellazione di piccoli giardini, che non potranno mai competere con la capacità produttiva delle grandi distese. Ma abbiamo dalla nostra una complessità culturale, biologica, linguistica che altri hanno perduto. E su questo non si riflette abbastanza, mentre preferiamo spararci addosso.

L’identità è una realtà dinamica, in continuo mutamento. Questo è vero anche sugli Appennini?

Decisamente sì. Il dibattito pubblico si è concentrato sul caso di Riace, ma in Calabria esistono altre esperienze molto interessanti. Ad esempio a Badolato (Cz) c’è un grandioso sindaco che, nella terra della ‘ndrangheta, ha ripopolato il paese con immigrati curdi, già alla fine degli anni Novanta, proponendo un modello di sviluppo che apparentemente è innovativo e rivoluzionario, ma in realtà è antichissimo. Perché nel corso dei secoli, nel Medioevo e all’inizio del Rinascimento, quando ci sono state le grandi pestilenze, l’Appennino ha visto più volte ripopolare le terre abbandonate e inselvatichite a causa della morte dei contadini autoctoni con veri e propri bandi di immigrazione, lanciati sull’altra sponda dell’Adriatico. L’elenco telefonico di Ancona, e in generale delle Marche, è pieno di cognomi che hanno dentro la radice slava, perché erano stati letteralmente chiamati dai Balcani. In questi bandi era scritto sostanzialmente: “Vi diamo una coppia di manzi, una casa abbandonata e delle campagne. Vi detassiamo per dieci o vent’anni. Purché voi rimettiate nel circuito produttivo queste terre, che altrimenti sono destinate alla boscaglia”. E questo è avvenuto nei secoli scorsi. Mentre oggi, in questa Italia, che ormai è posseduta dai cinghiali, dai cani randagi e dalle forze dell’antistato, sembra impossibile accogliere lo straniero. In questa Italia è importantissimo ricordare che le nostre radici sono costruite su un’immigrazione continua.

Dalla rivista Fondazioni: settembre – ottobre 2019