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Non chiamatele aree interne | Giovanni Teneggi

Intervista a Giovanni Teneggi per la rivista Fondazioni ottobre 2019

Giovanni Teneggi è direttore generale di Confcooperative Reggio Emilia. Da anni studia e racconta il fenomeno delle “cooperative di comunità”, un’originale forma di organizzazione sociale, che si sta diffondendo in tutta la Penisola.

Per cominciare, cosa sono le cooperative di comunità?

Le cooperative di comunità sono “imprese abitanti”: ovvero strumenti di riconciliazione fra la dimensione della cittadinanza e quella economica. Il reale e duraturo sviluppo di un territorio si realizza, infatti, solo coniugando questi due aspetti: una cittadinanza realmente protagonista e un’economia utile per il benessere della comunità. Difficile dire quindi se si tratta di esperienze sociali che sviluppano economie o di economie che producono relazioni e coesione sociale e a dire il vero poco ci importa. Il risultato è un’impresa sostenibile e competitiva, in contesti di più difficile accessibilità alle risorse.

Spesso, parlando di cooperative di comunità, cita le “economie di luogo”, di cosa si tratta?

Sono economie che non possiamo riconoscere senza includere il luogo nelle quali si sviluppano, i suoi caratteri, la sua gente, la sua storia. Sono economie che intendono la capitalizzazione sociale, ambientale, culturale dei luoghi nelle quali operano come fattore essenziale di continuità e competitività. Sono economie generate da luoghi che tornano ad essere di destino per i propri abitanti nativi, ritornanti, adottivi o affettivi. Sono economie, infine che vivono la partecipazione delle istituzioni sociali locali non come responsabilità o vincolo, ma come opportunità di un reciproco processo trasformativo, verso nuovi livelli di competitività sostenibile.

Cosa ci può insegnare l’esperienza di chi, nel mondo ultrarapido e liquido di oggi, sceglie di tornare a popolare i paesi delle aree interne italiane?

Chi torna a popolare paesi delle aree interne italiane ci indica l’urgenza di tornare a un luogo come carattere della propria esperienza di vita, sociale ed economica. Non necessariamente un luogo “sperduto”. Potrebbe essere anche un condominio, un quartiere metropolitano, una periferia, un centro rurale denso. La chiave è “fare luogo”, dove si decide o si ha l’occasione o la necessità di stare. Perché l’area interna non è geografica, ma sociale e umana: sugli Appennini come nelle metropoli c’è una grande e urgente necessità di recuperare luoghi in cui i membri delle comunità possano ritrovarsi e imparare nuovamente a vivere in una dimensione ecosistemica con ciò che li circonda.

Cosa si può fare per contrastare lo spopolamento delle aree interne italiane e far tornare i giovani?

Intanto, non chiamarle più “interne”. Dichiariamo di volere fare tornare i giovani alle aree spopolate, interne, impoverite, distanti… Ma chi di noi consiglierebbe a suo figlio di tornare e rischiare in aree così? Dobbiamo cambiare questa narrazione che non riguarda un desiderio di ritorno dei giovani, ma esorcizza semplicemente il lutto dei vecchi e ne risolve il senso di colpa per ciò che si è perduto. Parliamo di uno scarto prima sociale e culturale che geografico: siamo di fronte a terre orfane e senza eredi, un buco di almeno due generazioni. I giovani vogliono stare in terre popolate, dove possano giocare al massimo livello i loro desideri. Occorre innanzitutto cominciare a dire ai nostri figli che è possibile e che il primo passo non è cercare un luogo e un centro altrove, ma essere luogo e centro ovunque. Poi dobbiamo cambiare il lessico; progettare luoghi con loro, non per loro; farlo con gioia e divertendosi; farlo con iniziative di sconfinamento e non di rifugio e confino; farlo diventando programmatori di tecnologie e non solo utenti. Tutti noi, non solo i giovani, dobbiamo trasformare i luoghi, non tornarci.

Come si può contribuire allo sviluppo delle aree del centro Italia colpite dai recenti sismi?

Occorre un investimento di lungo periodo, sistemico e coerente. Oggi abbiamo troppo spesso interventi di breve periodo, isolati e non sempre coerenti. Il primo passo deve essere culturale e deve interrogare le generazioni. Il secondo passo deve provocare quelle stesse generazioni in progetti trasformativi di contaminazione con fattori e risorse esterne. Il terzo riguarda le alleanze con il mercato e con territori di uguale intraprendenza. Occorre poi severità e coerenze di metodo: narrazione, socialità, luoghi fisici, sconfinamento, tecnologia, mercati inediti, giovani. Senza queste condizioni non si può credere allo sviluppo dei territori.

Dalla rivista Fondazioni: settembre – ottobre 2019