Intervista a Concita De Gregorio, giornalista e autrice
per Fondazioni dicembre 2019
Concita De Gregorio è una giornalista e una scrittrice. Il suo ultimo libro si intitola “In tempo di guerra” e racconta la storia di Marco, ragazzo trentenne “soldato di una guerra invisibile”, e di tutti i ragazzi della sua generazione pieni di energie e di voglia di cambiare, ma privati di un esercito e di uno spazio. Una storia che racconta un percorso e ci insegna che c’è sempre una strada da intraprendere e un luogo dove andare.
Le è capitato di incontrare molti “Marco” negli ultimi anni?
Sì, moltissimi. Prima di rispondere però è importante partire da un presupposto fondamentale: le cose accadono in seguito a processi che prendono tempo. Io ascolto voci e storie da trent’anni ormai e credo di aver imparato a capire lo spirito del momento. È il mio lavoro e da tanti anni ho vari “sensori”: uno è la rubrica su Repubblica, dove ricevo centinaia di lettere al giorno, poi la radio con il programma “Cactus – Basta poca acqua”, dove porto avanti un dialogo costante con gli ascoltatori, e infine attraverso i blog come “Cosa pensano le ragazze”, dove mi scrivono molti giovani, di cui molti non sono più in Italia. Negli ultimi due anni la generazione che adesso ne compie 30 ha cominciato a farsi più presente e viva. Io ho notato una ricorrenza di temi e racconti con aneddoti simili. Sul tema del lavoro mi arrivano moltissime storie, i contratti precari, i pagamenti con i voucher, gli orari lunghissimi senza pause. Tutto questo con una narrativa che dice a questi lavoratori sempre più privati di diritti: “Sei giovane sei fortunato, pensa agli altri che non hanno neanche questo”. Non parlo di sindacalizzazione, perché la storia dei sindacati in Italia è una storia particolare, però qui parliamo di diritti di base dei lavoratori. Non puoi assumere un ragazzo formato, dandogli 800 euro al mese, e poi introdurlo in un regime quasi di schiavitù.
Questo ha contribuito a far perdere un senso di comunità?
Si è creato un sistema nel quale il mio vicino è il mio nemico, se io non accetto determinate condizioni le accetterà un altro che prenderà il mio posto. Così non può esserci comunità, fratellanza. Questo è un sistema impostato sull’individualismo, sulla rivalità, impossibile da scindere dal sistema economico che lo ha creato. Se guardiamo alla politica, ci si rivolge molto ai pensionati perché rappresentano una grande fetta di elettorato, non dico che sia sbagliato però così è una politica Si è creato un sistema nel quale il mio vicino è il mio nemico, se io non accetto determinate condizioni le accetterà un altro che prenderà il mio posto. Così non può esserci comunità, fratellanza. Questo è un sistema impostato sull’individualismo, sulla rivalità, impossibile da scindere dal sistema economico che lo ha creato. Se guardiamo alla politica, ci si rivolge molto ai pensionati perché rappresentano una grande fetta di elettorato, non dico che sia sbagliato però così è una politica
Oltre al lavoro, ci sono altre componenti che hanno contribuito a creare questa sensazione di solitudine e smarrimento?
La presenza della rete è stata importante. Se guardiamo le grandi fasi, abbiamo questa generazione digitale che sta arrivando oggi all’età adulta, sono i trentenni di oggi che hanno avuto una crescita molto segnata dalla presenza della rete. Le relazioni online sono reali, non voglio negarlo, ci sono interazioni vere ma manca la dimensione fisica. Lo abbiamo detto spesso in passato, ma ora abbiamo davanti l’esito del processo. Siamo di fronte a una generazione che da 15 anni è in rete e ora arriva all’età adulta essendo cresciuta nella rete. Ci sono anche relazioni reali, Marco ne ha con la sorella con l’amico Diego e con le ragazze, ma sono comunità piccole, persone reali della tua vita però con “gli altri”, il mondo fuori, la società, non c’è un contatto fisico, non c’è un luogo fisico. D’altro canto, questa generazione mi sembra la prima a mostrare un’insofferenza verso il virtuale e il bisogno di ricominciare a fare le cose fisicamente, cose di senso, qualcosa di “giusto”. Da qualche anno ascolto moltissime testimonianze di ragazzi che si impegnano nel volontariato, nelle battaglie comuni, nelle ONG (con capitane delle navi trentenni ma non solo questo). Oggi vediamo i ragazzi dei Friday for Future, ma questa generazione di giovani ha già da tempo mostrato interesse, impegno e una coscienza ecologica di rispetto del pianeta, consapevolezza sull’alimentazione, sui materiali inquinanti o riciclabili, che oggi è molto viva, molto di più delle generazioni precedenti. C’è una rete immensa di ragazzi che, nel tempo libero dal lavoro flessibile di cui parlavamo prima, si impegnano per fare cose insieme agli altri. Mi sembra ci sia oggi un’urgenza di ritrovarsi e condividere questa idea di mondo. Anche un po’ risarcitoria rispetto al destino individuale e di solitudine che ha colpito ciascuno.
I luoghi, lo spazio fisico, bisogna ripartire da qui per ricreare un senso di comunità?
Sono anni che il tema della comunità è stato diserbato, non è stato coltivato, anche questo è l’esito di un processo. Quando partecipavo ai talk show televisivi chiedevo “Questa cultura dell’Io dove ci porterà?”. Mi davano della buonista, ora abbiamo i risultati. Se perdi i luoghi della comunità, non c’è più lo spazio per coltivare le ragioni e le passioni comuni. Nessuno nasce cinico o individualista, è nella natura dell’uomo quella di affacciarsi alla vita e avere voglia di fare anche solo un centimetro di strada per cambiare le cose per sé stessi e per gli altri. Se non si trova un posto sorge frustrazione: “Avete chiuso tutte le strade” dice Marco nel libro. Però, continuo a dire, non è successo tutto in un istante, anche la scuola è cambiata tantissimo da quando eravamo un modello nel mondo. Forse c’era anche un eccesso di “democratizzazione” negli anni Settanta e Ottanta, però quella scuola ci ha educato a stare insieme, avevamo laboratori, seminari. Oggi ci sono i test Invalsi a crocette, fai da solo e da solo rispondi del tuo compito. Noi avevamo i lavori di gruppo, non è che studiavamo di meno, però studiavamo in gruppo. Questo non l’ho visto più. Io ho quattro figli, e ho visto che siamo passati dagli esami collettivi ai test Invalsi. Ovviamente, non voglio generalizzare, ma questa è una forma di cultura che mette la persona singola sola al centro della scena. Esclude la scelta del fare insieme per fare meglio che per me è stata formazione.
Se dovessimo iniziare oggi un processo per permettere ai giovani di apportare il cambiamento che sognano, da dove dovremmo cominciare?
Ecco, noi abbiamo spostato lo spazio del sogno alla startup, alla piccola impresa individuale, alla “tua idea geniale” e alla “tua capacità di essere imprenditore di te stesso”. Così si è passati dal sogno condiviso all’obiettivo di avere un puro tornaconto personale, individuale. Dobbiamo ripartire dal nostro istinto di fare le cose insieme e da una generazione che sta lentamente tornando a stare insieme nei luoghi. Prendiamo il movimento delle sardine: non so se porteranno qualcosa, ma intanto segnala un bisogno di occupare uno spazio fisico, uno spazio “nostro” dove entrano persone che la pensano allo stesso modo, che vogliono far sentire la loro voce. È vero che è un movimento di opposizione, nello stile un po’ del tempo, però già lo stare insieme è proposta. Le sardine non sono un movimento politico, ma un movimento che riempie uno spazio fisico, che riprende chi si sente solo e lo porta in piazza. Ora c’è il bisogno, il desiderio di fare le cose insieme.
Dalla rivista Fondazioni novembre-dicembre 2019