Sono passati circa cinquant’anni dalla pubblicazione di due fondamentali lavori che non possono essere ignorati quando si affrontano i temi della sostenibilità e della transizione ecologica. Il primo è il cosiddetto “Rapporto Meadows”, commissionato dal Club di Roma e pubblicato nel 1972 con il titolo “I limiti dello sviluppo”. Lo studio rappresentò il primo, documentato, grido di allarme sui rischi connessi ai fenomeni dell’incremento demografico, dell’industrializzazione, dello sfruttamento delle risorse e dell’inquinamento, che si prevedeva avrebbero messo a rischio, se non governati, la stessa sopravvivenza della specie umana sul pianeta.
Il secondo è il libro di Fred Hirsch, economista austriaco, dal titolo “I limiti sociali allo sviluppo”, pubblicato nel 1976, in cui viene esposta la tesi secondo la quale i reali limiti allo sviluppo non sono tanto quelli fisici (esaurimento delle risorse), quanto quelli sociali, derivanti dalla domanda di beni e servizi non essenziali (di status o “posizionali”, come li definisce Hirsch), non sostenibile nel lungo periodo. Nelle società occidentali, basate sui consumi di massa, la crescente domanda di questi beni crea una tendenziale insoddisfazione generale, sia nelle fasce della popolazione a basso reddito, che comunque non possono permetterseli, sia in quelle ad alto reddito per la crescente pressione della domanda “dal basso”, che riduce la soddisfazione derivante dall’esclusività del bene o servizio.
Presi assieme, il valore di questi due studi sta nell’aver evidenziato i condizionamenti fisici e sociali del nostro modello di sviluppo, gettando le basi di un dibattito che, attraverso una lenta maturazione, è arrivato prepotentemente ai nostri giorni e non è più eludibile. La recente convergenza di una molteplicità di crisi, contingenti e strutturali, ha fatto emergere l’esigenza di rivedere il nostro modello di sviluppo e di mettere in discussione un paradigma che sino a qualche anno fa sembrava un granitico atto di fede: cioè che la crescita infinita e a qualunque costo avrebbe prima o poi risolto gli squilibri economici e sociali e avrebbe portato benessere per tutti.
Oggi sappiamo che questo paradigma non regge più, sia perché l’obiettivo della crescita non può ignorare i pesanti effetti negativi derivanti da uno sfruttamento incondizionato delle risorse, sia perché esso, anziché ridurre le diseguaglianze economiche e sociali, ha finito per acuirle, polarizzando sempre più le differenze tra chi il benessere l’ha raggiunto e chi, invece, sembra sempre più spinto ai margini verso condizioni di precarietà e indigenza. La “mano invisibile del mercato” ha mostrato i propri visibili limiti, la propria incapacità di risolvere, da sola, le contraddizioni insite in questo modello di sviluppo.
La comunità internazionale sembra aver finalmente compreso la necessità di porre rimedio a questa insostenibile situazione di squilibrio e sta adottando misure che, pur riconoscendo la spinta propulsiva della libera iniziativa, ridefiniscono gradualmente i confini e le regole di ingaggio dell’attività economica, al fine di garantire uno sviluppo che sia più rispettoso dell’ambiente e delle persone. È una sfida titanica, piena di insidie e complessità, e che presuppone una convergenza a livello planetario. Perché si tratta di passare da un modello di sviluppo centrato sulla produzione a un modello di sviluppo basato sull’uomo.
Consapevoli della complessità della sfida, ma ispirati dall’esortazione di Altiero Spinelli sull’altrettanto ambiziosa sfida sull’Europa unita, possiamo affermare che “la via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!”
Dal numero settembre – ottobre della rivista Fondazioni, leggilo intero qui