Comunità sostenibili e resilienti possono rappresentare il futuro. Sostenibili perché capaci di mitigare gli effetti delle crisi globali, a partire da quelle ambientali, anziché alimentarli. Resilienti perché in grado, contemporaneamente, di adattarsi positivamente ai cambiamenti dovuti alle crisi globali già, purtroppo, in atto. La resilienza è la parola che definisce questo attributo positivo degli organismi e dei sistemi ambientali.
Il tempo esclusivo della sostenibilità è finito e, quando parliamo di resilienza, dobbiamo ricordarci che siamo già oltre il punto di non ritorno, poiché le conseguenze irreversibili, sociali e ambientali del cambiamento climatico, si stanno già verificando. Questo fatto implica che la sostenibilità senza resilienza è, di fatto, inutile. Dall’altra parte, perdiamo molto tempo a discutere se questo sia un termine alla moda o meno.
É un termine che implica la necessità di accettare che lo status quo non sia più una opzione. Diamogli quindi un nome qualunque, l’importante è rendersi conto che, mentre dobbiamo ridurre il nostro impatto (sostenibilità), dobbiamo anche accettare la sfida dell’adattamento a condizioni ambientali mai conosciute dall’umanità finora. Infatti, nella nostra storia degli ultimi duemila anni, non troviamo esempi efficaci in risposta a un fenomeno sconosciuto come questo. Ovvero, rispetto all’idea che la città è come un organismo vivente che, nel corso del suo viaggio, affronta condizioni ambientali estremamente diverse e oggi, per la prima volta, le nostre città devono affrontare condizioni che cambieranno drasticamente ogni anno.
Le città che conosciamo si basano essenzialmente su l’esistenza di un paradigma, quello dell’artificialità, che in natura non esiste. Si tratta di una reificazione che abbiamo costruito per conferire una dignità eroica al fatto che non siamo in grado di costruire, oggi, senza produrre rifiuti che generano un che generano un impatto negativo per la nostra stessa sopravvivenza.
Se superiamo questo limite, immaginando città che non generano rifiuti o scarti, superiamo anche la dicotomia tassonomica tra città e campagna, tra specie vegetali ed edifici. Vogliamo città migliori? Apriamo i confini all’immigrazione, per esempio. Dobbiamo essere in grado di progettare città per l’umanità e allo stesso tempo per le api, i grilli, i predatori che vengono espulsi da esse, mentre le loro prede proliferano, e dobbiamo avere il coraggio di mettere in dubbio i nostri canoni estetici… Insomma, un cespuglio disordinato è meglio di un prato e di un marciapiede.
Mi immagino o meglio, vorrei immaginarmi, città future che possano essere coltivate, anziché costruite, come invece facciamo oggi.
Mi immagino città idealmente capaci di superare l’idea binaria di artificio e natura. Città intrinsecamente ecologiche e, quindi, anche socialmente diverse e giuste. In questo “orizzonte”, l’architettura deve esser al centro delle strategie future. Attualmente, infatti, le costruzioni sono una delle principali cause di emissioni di CO2. Oltre il 30%, solo se consideriamo l’uso degli edifici. Se prendiamo in esame anche la produzione dei materiali, il loro trasporto, i processi di costruzione e demolizione e il tessuto urbano nel suo insieme, e ancora il rapporto con il clima e la fluidodinamica dell’atmosfera e la riduzione della biodiversità, possiamo senz’altro affermare che l’architettura, così com’è concepita oggi, rappresenti la più grande sfida alla nostra sopravvivenza, ma anche il luogo nel quale ricercare soluzioni.
Parallelamente non possiamo aspettarci che una categoria di architetti composta per lo più da uomini bianchi, occidentali e cinquantenni (come me, del resto) possa avere una visione completa di un mondo che è in realtà molto più complesso e disordinato di quanto siamo abituati a considerare. La risposta è politica e biologica allo stesso tempo: nelle città occorre maggiore diversità, ridondanza e variabilità.
Dal numero maggio-giugno della rivista Fondazioni, leggilo intero qui