Editoriale di Giorgio Righetti, direttore generale Acri
per Fondazioni giugno 2022
Il tema dello spopolamento delle cosiddette aree interne, o, meglio, delle periferie non urbane, è da tempo al centro del dibattito politico e pubblico. Se ne parla in quanto innumerevoli borghi, al Nord come al Sud del Paese, hanno subìto e stanno subendo una progressiva marginalizzazione, con conseguente abbandono da parte della popolazione, normalmente a favore dello spostamento verso i centri urbani.
Sono innumerevoli i progetti che sono andati affastellandosi, spesso con scarso successo, per evitare questo stillicidio. Progetti di ristrutturazione fisica dei borghi, di attrazione di flussi turistici, di rivitalizzazione dei mestieri artigiani e così via. Credo, tuttavia, che la ridotta efficacia di queste iniziative nasca dall’errore di prospettiva nell’affrontare il problema. L’obiettivo non dovrebbe essere tanto quello di ripopolare i borghi: il mondo è pieno di suggestivi luoghi che, un tempo abitati, sono andati via via perdendo la propria centralità sino ad essere completamente abbandonati. Si pensi a Ostia Antica, a Civita di Bagnoregio, a Monterano Antica, o, per andare oltre oceano, alle innumerevoli e affascinanti ghost town americane, solo per fare degli esempi. Di per sé, questo abbandono non rappresenta un problema. Il problema, piuttosto, è la concentrazione nelle grandi città di porzioni sempre più importanti della popolazione, fenomeno che porta con sé costi economici e immateriali per chi ci vive e per la collettività. Perché la vita in città sempre più grandi e congestionate è difficile, soprattutto per chi non dispone di risorse economiche adeguate ad affrontarne gli incredibili costi. Sul piano individuale, vivere in una grande città comporta straordinari costi abitativi, significativi oneri e tempi di spostamento, reti relazionali fragili e discontinue, maggiori rischi in termini di sicurezza, maggiore esposizione a malattie connesse alla scarsa qualità dell’aria, rischi di emarginazione a causa della debolezza delle reti di protezione. E tutti questi costi aumentano esponenzialmente quanto più ci si allontana dal centro della città e ci si immerge nella giungla delle periferie urbane. Sul piano collettivo, il sovraffollamento delle città comporta straordinari oneri edilizi, infrastrutturali, di sicurezza, sociali, che gravano pesantemente sui bilanci pubblici nazionali e locali. Purtroppo, in assenza di una chiara gestione dei fenomeni di inurbamento, questi costi, individuali e collettivi, non fanno altro che aumentare progressivamente: al problema del sovraffollamento, si risponde spesso con un incremento dei servizi (infrastrutturali, idrici, di trasporto, di sicurezza, ecc.) e quindi degli oneri che hanno marginalità crescenti, in una spirale perversa priva di soluzione di continuità.
Eppure, politiche più attente, parallelamente alla diffusione di tecnologie di connessione virtuale sempre più performanti, della diffusione dello smart working e di servizi distributivi sempre più sofisticati, potrebbero consentire di attenuare, se non interrompere, il fenomeno dell’inurbamento, con conseguente decongestionamento dei centri urbani e ripopolamento delle aree periferiche non urbane. Nei piccoli centri si vive indiscutibilmente meglio a condizione che vi siano servizi in grado di non far percepire a chi vuole insediare attività produttive e a chi ci vive, la sensazione di isolamento. Farlo si può, a costi probabilmente inferiori rispetto a quelli necessari per garantire un minimo di vivibilità nei grandi centri urbani.
Ma per riuscirci è necessario cambiare prospettiva e porsi l’obiettivo di “spopolare” le grandi città. Il ripopolamento dei borghi seguirà, quasi per incanto.
Da Fondazioni giugno 2021