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Essere donne in un paese diseguale | Rossella Ghigi

Testimonianza di Rossella Ghigi, sociologa, co-fondatrice del Centro Studi sul Genere e l’Educazione, Università di Bologna
per Fondazioni aprile 2022

Secondo la sociologa Barbara Risman, il genere è una vera e propria struttura sociale che si realizza in tre dimensioni: individuale, interazionale e istituzionale. Per dirla in breve, costruiamo la differenza di genere nel modo in cui pensiamo noi e gli altri, nel modo in cui ci interfacciamo agli altri, e nel modo in cui ci organizziamo con gli altri. Da come ci guardiamo allo specchio la mattina, a come conversiamo a una riunione di lavoro, fino all’orario in cui quella stessa riunione viene calendarizzata, tutto riflette (e riproduce) un certo modo di concepire il maschile e il femminile. Ebbene, queste dimensioni sono attraversate, ancora oggi, da forti asimmetrie, tali per cui la differenza di genere diventa, di fatto, disuguaglianza.

Certamente, almeno secondo le indagini, la maggior parte della popolazione sposa affermazioni di principio per cui la parità va perseguita, donne e uomini dovrebbero avere le stesse opportunità di carriera, e che “donna è bello”. In realtà, non è poi così bello, se in un paese il fatto soltanto di non essere nate uomini significa, per tutto l’arco della vita, molte cose. Significa crescere con una maggiore pressione sociale a compiacere gli altri, ad esempio: fin da piccole chiediamo di più alle figlie di aiutare in casa (in Italia, secondo l’Istat, l’81% delle donne svolge quotidianamente attività domestiche e/o cucina, percentuale che scende al 20% degli uomini e il gap inizia già in adolescenza). A bambini e bambine si propongono messaggi mediatici che traducono femminilità in bellezza, bellezza in giovinezza, giovinezza in magrezza, con conseguenti pesanti sanzioni sociali a chi devia dallo standard (secondo indagini comparate, nella televisione italiana è forte la sessualizzazione dei corpi giovani femminili e l’invisibilità, ad esempio, delle donne anziane).

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Non essere nate uomini significa
avere maggiore pressione sociale a compiacere gli altri,
dover scegliere tra carriera e figli,
non sentirsi al sicuro per strada di notte,
aver visto eleggere una figura politica dell’altro sesso.
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Significa con più probabilità, a parità di altre condizioni, dover scegliere tra carriera e figli, essere escluse dal lavoro quando si è giovani o rinunciare magari al secondo figlio per mantenere il lavoro o non subirvi demansionamenti. Il solo fatto di nascere donne e non uomini significa non sentirsi al sicuro a camminare per strada di notte o subire con più probabilità, a parità di altre condizioni, violenza nella relazione di coppia. Significa appartenere a una categoria sociale le cui competenze non vengono ugualmente riconosciute nello spazio pubblico. Significa con più probabilità aver visto eleggere una figura politica dell’altro sesso alle ultime elezioni nel proprio Comune, nella propria Regione o nel proprio paese. Significa invecchiare con una maggiore richiesta di care giving non retribuito verso figli e nipoti. Se poi si è donna migrante, o disabile, o non eterosessuale o di bassa estrazione sociale le difficoltà non si sommano, ma si moltiplicano.

Non è un caso che, nonostante indubbi miglioramenti nel corso del tempo, ancora oggi l’Italia sia al 63° posto su un panel di 156 Paesi al mondo secondo il World Economic Forum nell’indice del gap di genere, che considera partecipazione e opportunità economiche, istruzione, salute e sopravvivenza, e potere politico. Oggi ormai nessuno sembra sottrarsi all’elogio dell’uguaglianza nella differenza, della parità nella meritocrazia, della libertà nell’autoaffermazione individuale.

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L’Italia è al 63° posto su un panel di 156 Paesi al mondo
secondo il World Economic Forum
nell’indice del gap di genere che considera
partecipazione e opportunità economiche, istruzione,
salute esopravvivenza, e potere politico
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Come ricorda la filosofa Nancy Fraser, tuttavia, le istanze emancipatorie di autenticità e giustizia, che il femminismo ha storicamente portato avanti, rischiano di diventare strumenti per vendere e consumare, o al più di annacquarsi nella ricerca di autoaffermazione individuale, se perdiamo di vista gli altri obiettivi che la prassi femminista ha per lungo tempo perseguito: la solidarietà sociale, la politicizzazione del personale, il rifiuto dell’economicismo. Questo significa ripartire dalle asimmetrie materiali e simboliche che il genere come struttura sociale riflette e riproduce provando a costruire qualcosa di migliore.

Da Fondazioni, aprile 2022