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Giovani ricercatori, non abbiate paura di sognare | Alberto Mantovani

Intervista ad Alberto Mantovani, presidente Fondazione Humanitas per la Ricerca
per Fondazioni febbraio 2022

«Voglio incoraggiare a nuotare controcorrente seguendo la propria passione per la conoscenza. Il mio obiettivo è trasmettere il senso dell’avventura tipico della scienza, l’entusiasmo e la passione che la caratterizzano. La scienza è un valore che non si esaurisce nella nostra vocazione a conoscere e cambiare il mondo con i progressi e la tecnologia: alcune sue caratteristiche intrinseche – metodo basato sullo spirito critico, continua messa in discussione di ipotesi e tesi, verifica dei dati, riconoscimento della fallibilità, trasparenza, responsabilità sociale – dovrebbero essere parte della vita di tutti in una società realmente democratica». Sono le parole di Alberto Mantovani, dal libro “Non avere paura di sognare, Decalogo per aspiranti scienziati”. Immunologo, professore emerito di Patologia Generale e presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca, lo abbiamo intervistato.

Dalla sua esperienza, come definirebbe la “ricerca” e la “scoperta”?

La ricerca ha innanzitutto una dimensione di avventura che, spesso, non viene comunicata. La ricerca è sfida, errore, dubbio e, soprattutto, è confronto. Un confronto che dovrebbe essere pacato e in cui bisogna accettare di mettersi in discussione sempre, di cambiare idea se i dati e le evidenze lasciano emergere risultati diversi da quelli che ci aspettavamo. La ricerca scientifica è come un percorso ad ostacoli, è una staffetta in cui ci si passa il testimone, una catena tra scienziati del passato, del presente e del futuro. Il testimone, prima del contributo in termini scientifici, è la consegna di un sogno. Anche la mia storia scientifica è caratterizzata da un sogno, quello di usare le armi del sistema immunitario contro il cancro. Ma questo mio sogno attraversa la storia della medicina e dell’oncologia da più di 100 anni. Tanti cervelli, storie, laboratori. Un percorso caratterizzato da numerosi insuccessi che hanno però permesso di andare avanti e di entrare in un continente nuovo, quello delle terapie immunologiche. Perché nella ricerca anche il momento della scoperta può arrivare: la percezione di aver compreso o visto qualcosa a cui nessun altro era mai arrivato prima. Una sensazione meravigliosa.

Essere un patologo e immunologo che cosa ha significato per lei in questi due anni?

In questi due anni ha significato affrontare una sfida contro un grande nemico, ritornando inevitabilmente alla radice della nostra cultura greco-romana, il “So di non sapere” socratico. Per questo ha significato anche studiare molto, confrontarci, non solo tra studiosi, ma anche con i pazienti e con i clinici. Tanti sono stati gli incontri, le riunioni e le forze che si sono unite. In un momento in cui si alzavano barriere e muri, si stava creando invece un mondo senza confini. L’International Union of Immunological Societies, di cui sono stato presidente, ha come slogan: “Immunology without borders”, un’immunologia senza confini. Mai come in questo periodo lo slogan è stato più vero. Perché abbiamo condiviso i nostri dati nelle fasi più drammatiche della pandemia, avevamo chiamate giornaliere con studiosi da tutto il mondo, per cercare di capire insieme e condividere quel poco che allora sapevamo. Nella prestigiosa rivista Nature è stato pubblicato un lavoro collettivo enorme, uno dei più grandi studi sull’intero genoma: quasi cinquantamila pazienti COVID-19, 2 milioni di controlli su cittadini non infetti, oltre 3.800 autori per 61 sotto-studi provenienti da 25 paesi.

La divulgazione scientifica è tanto importante quanto la ricerca, e la pandemia ce lo ha dimostrato. Secondo lei dovrebbe esserci maggiore capacità e correttezza nel divulgare la conoscenza scientifica?

Comunicare la nostra conoscenza è un dovere che ogni scienziato dovrebbe svolgere, con umiltà e con un linguaggio semplice, corretto e comprensibile a tutti. Non è solo il mio pensiero quello che ho appena affermato, è il pensiero di un grande filosofo, Karl Popper. I principi ai quali mi sono attenuto nella comunicazione scientifica da sempre, e in particolare in questi due anni, sono tre, le ho chiamate le tre R: il rispetto dei dati, il rispetto delle competenze, la responsabilità sociale. Il rispetto dei dati condivisi dalla comunità scientifica è fondamentale per non comunicare informazioni false e fuorvianti; il rispetto delle competenze significa che essendo immunologo non mi occupo di previsioni o curve epidemiche perché questo ruolo lo svolgono gli epidemiologi, non è di mia competenze; la responsabilità sociale in ciò che comunichiamo significa tenere bene a mente che descrivendo il virus come attenuato o più gentile, inevitabilmente le persone sono indotte ad abbassare la guardia. Quando si decide di dare voce alle proprie conoscenze non bisogna mai sottovalutare l’impatto che possono avere sulle persone.

Il settore della ricerca scientifica è volano di sviluppo e motore di cultura, dell’economia e in generale di benessere. In quest’ottica, chi dovrebbe finanziare la ricerca?

Il cuore dei sistemi di finanziamento sani è senza dubbio il finanziamento pubblico. Sappiamo però che l’Italia è un Paese che non investe sufficientemente nella ricerca scientifica e nei meccanismi di finanziamento. Per questo il sostegno dei privati è essenziale, perché è grazie a loro che molte ricerche hanno potuto proseguire la loro strada. Un esempio su tutti: dopo il primo grido di allarme da parte delle unità di cura intensiva in Lombardia, nel febbraio del 2020, noi abbiamo ricevuto subito delle risorse per intensificare le nostre ricerche, da parte di privati e fondazioni. La Fondazione Cariplo e la Fondazione Veronesi, per esempio, hanno avviato un meccanismo di finanziamento, in tempi velocissimi, con un ottimo sistema di revisione e individuando come area cruciale quella dei soggetti fragili. Al contrario, il primo euro dal finanziamento statale è stato ricevuto a novembre 2020, quando la prima ondata era già terminata. Ma il finanziamento privato non basta, quello pubblico rimane fondamentale. Per questo, insieme a tanti altri del mondo della ricerca scientifica, abbiamo chiesto una riforma del sistema di ricerca e un aumento programmato dei finanziamenti attraverso il PNRR. Tuttavia, i sostegni privati sono stati, sono e saranno sempre di primaria importanza.

Sappiamo che quello dei giovani ricercatori è un percorso ad ostacoli, lungo e precario. Cosa direbbe a un giovane che vorrebbe fare il ricercatore?

Nonostante le criticità, io rimango ottimista perché, come dimostrano i dati dell’ERC (European Research Council), l’Italia ha uno dei livelli più alti di competitività dei giovani ricercatori. Nella classifica globale siamo appena dietro i giovani tedeschi, pur partendo con un enorme svantaggio, perché il loro Paese ha investito poco nella loro educazione e nel loro percorso accademico. Il Paese, quindi, è colmo di cervelli e cuori, perché la ricerca scientifica si fa con il cervello ma anche, e soprattutto, con la passione, con il cuore. Qualche anno fa ho scritto un libro con Monica Florianello dal titolo “Non aver paura di sognare” (La Nave di Teseo). Sognare, e parlo ai giovani che vorranno avventurarsi nella ricerca biomedica, non significa seguire l’impossibile ma farlo con i piedi per terra, imparare dai pazienti, confrontarsi con i colleghi, crederci e fare la propria parte per migliorare il mondo a servizio di una salute collettiva e condivisa.

Da Fondazioni febbraio 2022