Editoriale di Francesco Profumo, presidente Acri
per Fondazioni dicembre 2021
Da trent’anni le Fondazioni di origine bancaria concorrono a costruire un Paese più giusto e inclusivo. In questo percorso, le Fondazioni sono a fianco di numerosissimi “compagni di strada” e, insieme a loro, realizzano i progetti sui territori.
Sono i milioni di italiani che militano nelle organizzazioni del Terzo settore, i ricercatori, gli insegnanti, i volontari. Tutti coloro che si impegnano per salvaguardare e promuovere il nostro straordinario patrimonio storico-artistico, quelli che nelle periferie, nelle scuole e nelle carceri si prendono cura dei più fragili. Coloro che restaurano le bellezze del passato e coloro che pianificano il futuro, quelli che si occupano di archeologia e di innovazione, di agroalimentare e di ricerca scientifica, di rinnovare la didattica, di promuove l’inclusione sociale e lavorativa e, infine, di contrastare il fenomeno della dispersione scolastica. Con tutti loro, nei prossimi mesi, tutte le Fondazioni festeggeranno sui loro territori i primi trent’anni di attività.
I compleanni sono sempre l’occasione per guardare indietro alla strada percorsa, ma anche per provare ad immaginare quale sarà quella futura. Quindi la domanda da farsi oggi è: cosa saranno le Fondazioni tra trent’anni? Trent’anni fa non esistevano. Non c’era nel nostro Paese un soggetto privato di grandi dimensioni in grado di sostenere il nascente Terzo settore. Il ruolo del non profit era ancora poco riconosciuto e il processo del suo inquadramento normativo era appena agli inizi. Trent’anni fa il principio di sussidiarietà non era ancora stato esplicitato nella Costituzione (anche se forse era già implicitamente richiamato sin dai principi fondamentali).
Allora, oggi, non è forse lezioso interrogarsi su ciò che saranno le Fondazioni di origine bancaria nel 2051. Cambieranno le loro modalità operative? Muteranno nel numero e nella presenza territoriale? Quali saranno i nuovi bisogni a cui rispondere? E quali i campi in cui intervenire?
Non ho la risposta a tutti questi interrogativi. Ho solo due certezze su quello che le Fondazioni non dovranno mai smarrire.
La prima è la loro propensione all’innovazione. In quanto enti privati, esse hanno il privilegio di poter assumere – prudentemente – il rischio di sperimentare nuove strade. Probabilmente commetteranno degli errori, senza i quali, però, è impossibile generare una vera innovazione. Ma sono chiamate a questo rischio, per aprire sempre nuove strade. Non serve incamminarsi su terreni già battuti: il loro compito è – e sarà – sperimentare nuove soluzioni che possano divenire policy da poter replicare su ampia scala.
La seconda è il dialogo costante con le loro comunità di riferimento. Un dialogo fatto di ascolto e di stimolo alla partecipazione. Solo così l’azione delle Fondazioni continuerà ad essere radicata ed efficace. Perché – come ci ha ricordato il Presidente Mattarella – comunità, significa condivisione di valori e di visione, ma significa anche responsabilità, perché ciascuno di noi, in misura più o meno grande, è protagonista del futuro del nostro Paese.
Nuovi grandi sfide ci aspettano. Ma guardiamo al 2051 con un patrimonio di saperi, di esperienze e con tanti compagni di strada. Siamo fiduciosi, perché convinti, come scrisse la filosofa spagnola Maria Zambrano, che “le radici devono avere fiducia nei fiori”.