Michele Bugliesi è Presidente Fondazione di Venezia e Ordinario di Informatica, già Rettore dell’Università Ca ‘Foscari. Alcune delle riflessioni di questo dialogo sono il frutto del confronto su questi temi con il Prof. Giuseppe Lauria Pinter, Ordinario di Neurologia all’Università di Milano e Direttore del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche presso la Fondazione IRCCS Istituto Neurologico “Carlo Besta”.
All’esplodere della pandemia, a marzo dello scorso anno, scuola e università si sono trovate improvvisamente di fronte alla nuova sfida della formazione a distanza. Come hanno risposto i sistemi di istruzione e formazione nel mondo e, in particolare, nel nostro Paese?
L’impatto è stato travolgente, in Italia e nel modo. Nel nostro Paese abbiamo registrato reazioni diverse nei diversi segmenti della formazione. con alcuni elementi distintivi: in positivo, l’accelerazione senza precedenti all’adozione del digitale, in negativo, le difficoltà – sicuramente più accentuate nelle scuole che nelle università – nell’organizzare una risposta adeguata sia sul piano delle infrastrutture sia su quello dei metodi didattici.
Digitale e disuguaglianze. Qual è lo scenario italiano?
Complessivamente, il quadro non è dei migliori, ma la risposta dipende da quali indicatori scegliamo. Secondo l’indagine 2020 del Digital Economy and Society Index (DESI 2020), l’Italia occupa il terzultimo posto nella graduatoria dei 28 Stati membri dell’UE, con un punteggio pari a 43,6, rispetto al dato UE del 52,6. Sul piano della connettività, il punteggio dell’Italia è vicino al dato europeo (50 rispetto a 50,1), e ci colloca alla diciassettesima posizione della graduatoria: si tratta in realtà di un quadro composito, che fotografa una buona copertura delle reti NGA (Next Generation Access), che raggiunge l’89% superiore alla media UE dell’86%, mentre evidenzia un dato decisamente meno positivo per banda ultra-larga, con un indice di copertura del 30% rispetto alla media UE del 44%.
Il dato più preoccupante riguarda invece l’indicatore «capitale umano» che misura il livello di competenze digitali della popolazione e colloca l’Italia all’ultimo posto della classifica con il 42% delle persone tra i 16 e i 74 anni in possesso di competenze digitali di base (rispetto al 58% nell’UE) e solo il 22% di competenze digitali superiori a quelle di base (rispetto al 33% dell’UE).
La conseguenza è l’emergere del fenomeno che spesso viene riferito come digital divide, ovvero il divario che cresce tra chi ha accesso alle tecnologie e chi invece viene escluso. Come si evidenzia dai dati appena elencati, è un problema che non riguarda tanto la disponibilità delle infrastrutture e dei dispositivi, quanto il basso grado di scolarizzazione e di istruzione che impedisce di fruire in modo compiuto delle tecnologie disponibili e dei servizi associati. È qui che entra in gioco la formazione.
In diversi settori è risultato evidente che la pandemia abbia acuito le disuguaglianze già presenti nella nostra società. È accaduto lo stesso anche nel mondo della scuola?
In parte sì, purtroppo. La rilevazione CENSIS 2020 sullo stato della scuola evidenzia una situazione di crescente disagio per gli strati più fragili delle famiglie, che si riflette in corrispondenti difficoltà per i minori impegnati nella formazione. Secondo i dati ISTAT più recenti il 33,8% delle famiglie non ha un computer o un tablet in casa, il 47,2% ne ha uno e solo il 18,6% ne ha due o più; spostando lo sguardo sulla popolazione studentesca, 850.000 ragazzi tra i 6 e 17 anni sono senza un pc o tablet e di questi più della metà risiedono nel Mezzogiorno. A complicare il problema concorrono poi gli spazi abitativi: secondo gli stessi dati del 2018, il 41,9% dei minori vive in abitazioni sovraffollate senza un spazio adeguato da riservare alla connessione e allo studio. Un gap nella disponibilità di strumenti e spazi che determina un conseguente ampliamento del gap formativo a sfavore dei segmenti sociali più deboli, segnalato dal 74,8% dei dirigenti scolastici sul territorio nazionale.
L’emergenza ha anche accelerato un processo di innovazione? Come lo valuta? Ritiene sarà duraturo?
Con tutte le difficoltà emerse nell’organizzare una risposta adeguata, l’accelerazione nell’adozione del digitale segna un punto di progresso forte e destinato a incidere nel tempo. Ora, nella prospettiva della «nuova normalità» che tutti auspichiamo, il problema è come / se sapremo valorizzare l’eredità che questa accelerazione ci consegna. Certamente c’è un tema di investimenti che ci permettano di completare la transizione sul piano delle infrastrutture e dei servizi ponendo rimedio all’inadeguatezza di risorse alla base di molte delle difficoltà che il sistema della formazione ha evidenziato. D’altra parte, se l’esigenza di risorse richiede una risposta urgente, c’è un’altra questione che merita una riflessione, altrettanto importante nella prospettiva del nuovo inizio «post COVID-19», e riguarda i metodi e i modelli didattici della «nuova normalità». Dovremo infatti saper valorizzare le tecnologie digitali e, al tempo stesso, conservare alla presenza e all’esperienza di comunità la sua valenza insostituibile. La soluzione in realtà già esiste nelle esperienze che si vanno consolidando da tempo nelle grandi università e nei sistemi di formazione di molti paesi. Sono i modelli delle cosiddette flipped classroom, le classi ribaltate, e più in generale i modelli ibridi in cui lezioni, letture e altri contenuti vengono resi disponibili online in preparazione delle attività in presenza, a cui viene affidato l’apprendimento. Un modello il cui successo passa attraverso una piccola-gande rivoluzione nelle forme in cui si deve organizzare il lavoro in classe così come nei modi di predisporre le lezioni e i contenuti formativi online. È una rivoluzione che deve riguardare tutti i settori, dalle scuole di grado inferiore alle università, e che richiede un importante impegno formativo degli insegnanti per favorire l’acquisizione di conoscenze e competenze da parte degli studenti. Nella sostanza, ciò che fino a oggi ci è parso il miglior metodo per insegnare, non è affatto detto che sia il miglior metodo per imparare: il digitale rende possibile realizzare nuove modalità didattiche che nelle esperienze in cui sono state sperimentate si sono dimostrate più stimolanti per gli studenti e, come tali, più efficaci nel migliorare i risultati complessivi dell’apprendimento.
L’adozione delle tecnologie digitali nei sistemi di istruzione nel nostro Paese può contribuire a ridurre le disuguaglianze economiche tra gli studenti?
In certa misura sì, per quanto la soluzione alle disuguaglianze non può essere il digitale. Le piattaforme informatiche costituiscono certamente uno strumento efficace per l’accesso diffuso ai contenuti formativi, e dunque, quantomeno per i corsi universitari, possono contribuire a ridurre il peso economico associato alla vita universitaria «fuori sede». D’altra parte, come osservavo in precedenza, l’esperienza che stiamo vivendo ci conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che un processo di apprendimento compiuto richiede partecipazione e cresce nel confronto e nell’incontro, e che la socialità è un elemento insostituibile. Se dunque le piattaforme per la didattica a distanza possono effettivamente offrire un’opportunità nuova di accesso allo studio per studenti e famiglie in condizioni di fragilità economica, il rischio che questa opportunità porta con sé è di conservare invariato il grado di divaricazione tra i livelli di apprendimento e crescita culturale nelle diverse fasce della popolazione, tra chi ha accesso a sistemi di formazione integrati e chi invece rimane relegato a un destino di formazione virtuale, vissuto solo a distanza.
Qual è il legame tra formazione e mobilità sociale?
È un legame che si sostanzia nel rapporto, dimostrabile e dimostrato, tra livello di formazione e prospettive di crescita sociale nel corso della vita di ciascuno. Ciò detto, tutte le analisi indicano che il nesso causale si manifesta in misura inferiore oggi di quanto fosse per le passate generazioni, che sembrano aver fruito di processi di espansione che erano molto più avanzati quando i livelli di formazione erano molto inferiori. Il problema di oggi non è in realtà nel nesso causale per sé, ma nella disuniformità, che affligge sistematicamente le fasce sociali più deboli nell’accesso alla formazione e nei risultati di apprendimento.
Se guardiamo alla fotografia della scuola di oggi, emerge chiara una correlazione tra la condizione economico-sociale e culturale delle famiglie e la performance scolastica dei minori. Secondo i dati OCSE-PISA del 2018, il 25% dei quindicenni che frequentano le nostre scuole non raggiunge le competenze minime in matematica, lettura o scienze, e i dati evidenziano chiaramente la correlazione tra incidenza del deficit formativo e condizioni economiche delle famiglie. Per la lettura, il deficit affligge il 42% dei ragazzi di famiglie a basso reddito contro il 13,8% dei coetanei che vivono in famiglie benestanti. Percentuali non diverse caratterizzano altri ambiti di competenza, le scienze e la matematica ad esempio, così come non diverse sono le criticità del gap tecnologico cui accennavo in precedenza. I dati che emergono dalle università riferiscono altri indicatori, ma la sintesi dei problemi non differisce nella sostanza: difficoltà di accesso allo studio per segmenti ampi della popolazione studentesca, tempi di diploma dilatati, percentuali di abbandono elevate. L’abbandono, in particolare, è un fenomeno che riassume molti elementi alla base dei vari problemi, tra quali, nuovamente, lo stato economico-sociale delle famiglie e le criticità dei sistemi scolastici precedenti.
Un ambito nel quale la formazione assume oggi un ruolo importante rispetto alla mobilità sociale riguarda la popolazione adulta. È un ambito nuovo, che emerge dai processi di trasformazione del lavoro e delle professioni che si fanno sempre più incalzanti, generando un’esigenza di formazione sempre più diffusa. Non abbiamo ancora dati per un’analisi puntuale di correlazione, ma certamente l’accesso alla formazione life-long rappresenta oggi uno strumento essenziale per garantire la crescita, l’aggiornamento e/o la riconversione della forza lavoro e del management in tutti gli ambiti economici e produttivi.
Quale ruolo possono svolgere in questo contesto le Fondazioni di origine bancaria?
Le Fondazioni fanno già molto. Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, realizzato grazie a un accordo fra l’Acri e il Governo con la collaborazione del Forum Nazionale del Terzo settore, è uno dei più importanti interventi collettivi a favore di tutte le fasce d’età dalla prima infanzia all’intera adolescenza, alimentato in sei anni con circa 607 milioni di euro, in progetti che coinvolgono circa mezzo milione di bambini e ragazzi, insieme alle loro famiglie. È un indirizzo promosso con grande forza dal Presidente di Acri Francesco Profumo, che nel suo intervento in occasione della 96a Giornata Mondiale del Risparmio, ha delineato in modo chiaro e molto efficace le priorità di azione delle Fondazioni per il Paese, identificando nei giovani, nell’innovazione sostenibile, e nella lotta alle disuguaglianze i primi ambiti di intervento. Ho condiviso con grande favore questa posizione, nella piena convinzione della capacità che le Fondazioni, con la propria azione erogativa, esprimono nel mobilitare risorse decisive attraverso partenariati e forme di co-progettazione con diversi attori, pubblici, privati e organizzazioni del terzo settore. Viviamo una fase in cui, mentre si intravede la fine dell’emergenza pandemica, ci apprestiamo a realizzare un piano di investimenti che impiegherà risorse pubbliche imponenti per sostenere la ripresa e guidare la crescita. In una fase così delicata, nella quale scegliere la destinazione degli investimenti sarà inevitabile, il principio di sussidiarietà a cui le Fondazioni si richiamano sarà una volta di più fondamentale quale guida di un’azione coerente ai principi di equità sociale – nella formazione come nel lavoro – che sostenga in particolare i segmenti sociali che rimarranno al margine di queste scelte.