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La detenzione si orienti al futuro | Mauro Palma

Intervista a Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti
per Fondazioni – aprile 2021

Mai come in questo periodo di emergenza sanitaria, le carceri italiane sono state nell’occhio del ciclone. Il problema del sovraffollamento, unito alla capienza esigua degli spazi per garantire il distanziamento sociale, ha acceso i riflettori su quella nube, difficile da diradare, che avvolge da sempre il tema delicato dei diritti dei detenuti. Ne abbiamo parlato con Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.

Cesare Beccaria sosteneva l’importanza di garantire nelle carceri la dignità umana anche per lo scopo “rieducativo” della detenzione stessa. Lei crede che il carcere italiano di oggi assicuri la dignità del detenuto? Riesce ad assolvere alla sua missione rieducativa?

Ancora prima di Cesare Beccaria, già filosofi come Platone e Protagora, sostenevano che la pena dovesse guardare al futuro perché tanto il male fatto non può essere mai sanato. E allora è bene che, in qualche modo, vi sia, da un lato, il riconoscimento del male che si è commesso e del responsabile (ed è questo è il valore del sentenziare), e dall’altro lato, lo sguardo progettuale che non si limita all’oggi e alla chiusura, ma che guardi anche al domani e alla possibilità di un reintegro. Tuttavia ritengo che, questa prospettiva, il carcere attuale, l’abbia persa di vista. Oggi non c’è una missione complessiva rispetto alla finalità della pena e, anche laddove si attivino progetti per migliorare le condizioni materiali delle persone detenute, si manifesta questa assenza di una linea dato che il carcere già parte da una contraddizione insista che è quella del “socializzare desocializzando”, ritengo che sia necessario investire molto se si vuole effettivamente dare al dettato costituzionale della rieducazione, un significato sociale di reinserimento. Altrimenti è soltanto tempo sottratto.

In alcuni casi la criminalità è frutto di vulnerabilità sociale. Secondo il suo punto di vista, in Italia, la vulnerabilità sociale è affidata al carcere?

Io non dico che la criminalità sia frutto della vulnerabilità sociale. Ciò nonostante, la vulnerabilità sociale, che nel sistema attuale è particolarmente accentuata anche per la riduzione di altri luoghi dove si possano dirimere i conflitti sociali, espone al rischio della commissione del reato. Tuttavia, è anche vero che il commettere un reato è sempre un fatto soggettivo e non va negata la responsabilità del soggetto che lo compie. Certamente questo discorso mette in gioco il ruolo sussidiario che il diritto penale dovrebbe avere: il diritto penale dovrebbe essere una misura estrema, invece, in Italia, c’è una tendenza a intervenire in prima istanza con lo strumento penale.

In Italia, il lavoro della polizia penitenziaria è sottovalutato? Lei crede che queste figure professionali siano in grado di sostenere situazioni complesse dal punto di vista psicologico e sociale?

Io penso che in Italia il lavoro della polizia penitenziaria sia estremamente sottovalutato. Credo, inoltre, che questa sottovalutazione si riscontri in vari aspetti: il lavoro della polizia penitenziaria durante l’emergenza sanitaria non è stato considerato sufficientemente. La polizia penitenziaria, invece, è riuscita a essere presente in luoghi molto difficili da gestire, mantenendo un rapporto diretto con le persone detenute. Inoltre, questo ruolo è sottovalutato nel linguaggio: si parla di “guardie carcerarie”, di “secondini”, tutti termini riferibili a un linguaggio arcaico, che non appartiene affatto alla professionalità di uomini e donne che lavorano in questo settore. Poi questa categoria non è valorizzata neanche dall’istituzione stessa nell’ambito formativo: il centrare la formazione sempre più secondo una direzione “tosta”, esclusivamente in riferimento alle armi e alla sicurezza, non lascia modo di capire che, chi svolge questo ruolo, è chiamato a “leggere” le dinamiche tra le persone. E quest’ultimo è un aspetto fondamentale per la protezione delle persone e di se stessi. Infine, ritengo che anche coloro che “difendono” i comportamenti negativi di pochi soggetti appartenenti alla categoria della polizia penitenziaria che non rispettano la dignità e l’integrità delle persone a loro affidate, in realtà offendono gravemente la categoria.

L’epidemia di Coronavirus ha trovato terreno fertile nelle carceri a causa del problema del sovraffollamento: lei crede che questa situazione sia stata per troppo tempo sottovalutata? In quali condizioni versava il sistema carcerario quando è arrivata l’epidemia?

Dopo la condanna del 2013 da parte della Corte di Strasburgo ai danni del sistema carcerario italiano, quando il nostro Paese era giunto a più di 65mila detenuti, sono stati attuati una serie di provvedimenti e di reimpostazioni per modificare la situazione. Ben presto i numeri sono scesi (da 65mila a 52mila) e il Comitato di Strasburgo, che vigilia sull’effettiva esecuzione delle sentenze della Corte, si è ritenuto soddisfatto di ciò che l’Italia aveva messo in campo. Le azioni non sono state solo deflattive, ma anche di cambiamento d’ impostazione della vita interna al carcere. Dopo questa fase, negli ultimi tempi, complice un vento interpretativo che ha modificato il modo di guardare questi problemi di marginalità sociale, i numeri sono tornati a salire e si è nuovamente giunti a 61mila persone detenute, quasi lo stesso valore verificato quando l’Italia era stata condannata. È anche vero che, in seguito al lockdown, c’è stata una riduzione considerevole di ingressi e si è prestata maggiore attenzione a scegliere la pea del carcere laddove fosse strettamente necessario. Tuttavia, queste scelte sono state oggetto di polemiche e di campagne di respingimento perchè, oggi, il carcere continua ad essere molto denso e la necessità di isolamento, quando si riscontrano casi positivi al Covid, non è sempre consentita. Detto questo, ritengo che centralizzare il dibattito del carcere al solo tema dell’affollamento, sia comunque una visuale miope.

Al termine della pena detentiva, un ex detenuto si ritrova “di colpo” in una società in cui deve reinserirsi e spesso scontrarsi con pregiudizi. Lei pensa che lo Stato debba fare qualcosa di più per chi esce dal carcere?

È prevista qualche forma di accompagnamento e di sostegno? Quello che descrive lei è il sistema di probation, attuato in diversi Paesi. Si tratta di un meccanismo che non solo prevede un accompagnamento alla fine del periodo di detenzione, ma offre anche supporto e controllo, conclusa la pena all’ex detenuto. Su questo, ritengo che il supporto non sia compito esclusivo dello Stato, ma anche della rete dei servizi sociali dei territori. Credo anche che, in questa fase, non sia necessario solo l’accompagnamento, ma anche il controllo, perché bisogna tener presente che la recidiva nel nostro Paese è molto elevata e che la criminalità è viva quindi il reinserimento controllato assolutamente necessario.

Da Fondazioni, aprile 2021