Carola Carazzone è avvocato per i diritti umani, segretario generale di Assifero e prima presidente donna di Dafne, il network europeo delle associazioni di fondazioni. Di seguito la sua intervista per Dialoghi sull’Uguaglianza.
Cosa significa per lei “Uguaglianza”?
Mi riconosco profondamente nella visione di Amartya Sen, economista, filosofo e accademico indiano, Premio Nobel per l’Economia nel 1998: per definire l’uguaglianza bisogna partire dall’eterogeneità delle caratteristiche degli esseri umani. Affermare infatti che tutti gli uomini sono uguali è una profonda banalizzazione delle peculiarità dell’individuo e del contesto in cui è collocato; fa perdere la molteplicità di punti focali da cui la disuguaglianza può essere valutata. Questo per Sen si concretizza nell’approccio delle capacità e delle opportunità di scelta (capability approach): la ricerca non di una ricetta unica applicabile a un uomo medio standard come si è ritenuto per più di un secolo in economia, replicabile in maniera standardizzata, ma di soluzioni abilitanti, flessibili che siano in grado di comprendere e valorizzare l’unicità della singola persona, dando a ciascuno le possibilità e le competenze di scelta per raggiungere il massimo del suo potenziale. Amo molto anche il concetto di Sen delle identità multiple di ciascuno di noi, che ha implicazioni profonde anche sulla intersezionalità delle diseguaglianze.
Quali sono le sfide più importanti da affrontare per contrastare le disuguaglianze?
La più grande sfida è adottare un approccio sistemico e intersezionale nel contrasto alle diseguaglianze, superando modelli lineari a silos o a bolla. In un’era così fortemente globalizzata e interconnessa come l’attuale, è necessario accogliere la complessità con nuovi approcci più sistemici e strumenti operativi più flessibili, più abilitanti e meno pianificanti. Ragionare, come si è fatto negli ultimi decenni, per liste di attività lineari e progetti separati come se fossero sconnessi gli uni dagli altri può risultare non più adeguato. Bisogna invece accogliere la complessità delle sfide che abbiamo di fronte, capire come esse si leghino tra di loro e forgiare alleanze, anche inusuali, per trovare soluzioni trasformative che vadano alla radice dei problemi.
Può citare alcuni esempi di iniziative di contrasto delle disuguaglianze realizzate dalle associate di Assifero?
Collegato al capability approach di Amartya Sen, mi viene in mente Fondazione di Comunità di Messina con il suo programma Capacity che ruota intorno al concetto di “capitale personale di capacitazione”. Grazie a questo tipo di capitale, ad esempio, molte delle famiglie che vivevano nelle baraccopoli di Messina hanno potuto scegliere, nel lasciare le loro abitazioni fatiscenti, se stabilirsi in un progetto di housing sociale o sottoscrivere un mutuo per ottenere una casa di proprietà. L’approccio non si limita ad affrontare la povertà di quella famiglia, ma va a ribaltare le condizioni di diseguaglianza: va ad incidere sullo stato patrimoniale, non sul conto economico di quella specifica famiglia. Sempre parlando di lavoro di comunità, mi viene in mente il bellissimo lavoro che porta avanti FOQUS nei Quartieri Spagnoli di Napoli, con percorsi di emancipazione con le famiglie in difficoltà e promuovendo l’imprenditoria sociale locale, o Fondazione di Comunità San Gennaro nel Rione Sanità, sempre a Napoli. Per le fondazioni di famiglia penso al lavoro di Fondazione Charlemagne e Fondazione Paolo Bulgari, nelle periferie di Roma con un approccio territoriale, perché parte da processi partecipativi e non da bandi, sistemico, perché realizzato in dialogo con tutti gli attori rilevanti, e interdisciplinare. Fondamentali non solo i programmi specifici ma anche il supporto alle attività di studio e ricerca per comprendere le radici delle diseguaglianze: un esempio è il Forum Diseguaglianze e Diversità fondato e sostenuto, oltre dalle sopracitate Fondazione di Comunità di Messina e Fondazione Charlemagne, anche da Fondazione CON IL SUD e Fondazione Unipolis.
Oggi vediamo spesso sentimenti di rabbia e di antagonismi all’interno della nostra società. Come si realizza l’uguaglianza in un contesto pieno di tanto risentimento?
Mi ricollego sempre al pensiero di Sen, in particolare a quanto esprime nel suo saggio Identità e violenza del 2005: società più coese, pacifiche, inclusive e tolleranti si basano su una visione complessiva dell’individuo, delle sue sfaccettature, delle sue identità multiple, senza ricondurlo a identità esclusive e sclerotizzanti. E’ proprio una classificazione standardizzata secondo un’unica caratteristica culturale principale, come la religione o la civiltà, che nega il pluralismo intrinseco di ogni individuo ed esacerba la violenza. Ripartire dal singolo, considerando le identità multiple, interconnesse, che lo caratterizzano al fine di promuovere le possibilità e le competenze di scegliere il proprio percorso di vita personalizzato è la chiave per avvicinarsi sempre di più all’eguaglianza di opportunità di scelta e, valorizzando la pluralità di identità di ciascuno, la comune appartenenza al genere umano, società più pacifiche, democratiche, inclusive e coese.
Recentemente lei ha dedicato un approfondimento al tema della disuguaglianza di genere. Può illustrarci brevemente qual è la sua visione in merito?
L’anno scorso è ricorso il 25esimo anniversario dalla Conferenza mondiale di Pechino, durante la quale fu approvata la Piattaforma di azione per le donne che diede il via ad una trasformazione delle politiche a livello nazionale e internazionale in quasi tutti gli Stati del mondo. Nonostante ciò, a un quarto di secolo di distanza, la strada per raggiungere l’equità di genere è ancora lunga specialmente nel nostro Paese, e i dati lo confermano. Si prenda ad esempio l’indice elaborato a partire dal 2013 dall’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) che si compone di sette dimensioni principali (lavoro, finanza, formazione, potere, tempo, salute e violenza) considerate in maniera intersezionale, per valutare la parità di genere. I dati dell’EIGE dimostrano che è evidente che l’avanzamento della media europea sia molto lento e disomogeneo. Se ci concentriamo sull’Italia si vede come la sua performance sia migliorata, ma in realtà, il miglioramento è dovuto ad un’unica dimensione (potere) e ad un unico indicatore: la partecipazione delle donne nei cda delle società quotate grazie alla legge Golfo Mosca (n.120/2011). Se consideriamo poi i dati sulla violenza di genere nel nostro Paese, la situazione è ancora più allarmante: secondo l’Istat il 92,5% dei casi in Italia non viene denunciato. E non dimentichiamo che il 70% dei posti di lavoro persi in Italia a causa della pandemia sono di donne. Le donne in Italia hanno pagato e stanno pagando il prezzo più alto di una pandemia profondamente diseguale. Come ha affermato Linda Laura Sabbadini, Direttrice centrale dell’Istat e Chair del prossimo W20, in un’intervista di qualche mese fa, il piano di ripresa dalla crisi e gli strumenti messi in campo a livello europeo (tra cui il Next Generation EU) rappresentano un potente mezzo per far avanzare l’occupazione femminile e promuovere lo sviluppo coeso della nostra società. L’Unione europea richiederà una valutazione di impatto di genere in ogni investimento di Next generation EU, sarebbe portentoso se le fondazioni italiane decidessero di fare altrettanto per ogni finanziamento o investimento promosso. Applicare una lente di genere in tutte le scelte politico economiche che vengono fatte a livello istituzionale, ma non solo, è un passo fondamentale per lo sviluppo umano sostenibile del nostro Paese.
La pandemia ci ha insegnato qualcosa sull’importanza del contrasto alle disuguaglianze?
Sicuramente: la pandemia Covid è una pandemia diseguale. Negli anni a venire il nazionalismo dei vaccini o apartheid dei vaccini saranno indicatori emblematici di diseguaglianza. Niente come questa pandemia ci ha dimostrato come ciascuno di noi sia interconnesso a tutta l’umanità, il concetto di ubuntu “io sono perché noi siamo”[1]. La pandemia inoltre è stato un campanello d’allarme, un fattore scatenante che ha messo in luce anche le diseguaglianze considerate latenti: diseguaglianze non solo sanitarie ma anche economico, sociali, culturali e ambientali.
A gennaio è stata nominata alla guida di Dafne, il network europeo delle associazioni nazionali di fondazioni. Come viene visto nel resto del continente il tema del contrasto delle disuguaglianze? E quali pratiche vengono messe in campo dalle fondazioni per contribuire a ridurle?
Le fondazioni europee impegnate contro le diseguaglianze sono sempre più numerose. A differenza della questione della povertà, la questione delle diseguaglianze è stata a lungo considerata appannaggio delle fondazioni più orientate a giustizia sociale e diritti umani in quanto va direttamente a investire le dimensioni del potere e non solo beneficienza e carità. Troppo la lungo si sono giustificate le diseguaglianze confondendo meritocrazia e meritorietà (criterio del merito). Proprio di questo si occupa Chiara Volpato nel suo recente saggio, Le radici psicologiche della disuguaglianza, portando il contributo fondamentale della psicologia sociale sul tema delle diseguaglianze, finora soprattutto appannaggio degli economisti. Volpato approfondisce le dinamiche che reggono le diseguaglianze, come queste vengano costruite, nascoste, interiorizzate e rivela i meccanismi di assoluzione, colpevolizzazione, colonizzazione e gli atteggiamenti di dominanza e sottomissione con cui le diseguaglianze si fortificano. Alla radice delle diseguaglianze risiedono percezioni distorte che in modo sistematico le banalizzano e processi di legittimazione, profondamente connessi in miti di fondazione e giustificazione, da entrambi i gruppi: quello dominante e quello che subisce. Questi ultimi concorrono entrambi – spesso inconsciamente – alla conservazione delle diseguaglianze secondo meccanismi di psicologia sociale che si fondano su tre fattori reciprocamente rinforzanti: legittimazione, stabilità e permeabilità. E fondamentale per il futuro delle nostre società, per la loro coesione, per la loro sostenibilità politica e istituzionale, andare ad affrontare le cause più profonde della perpetuazione delle diseguaglianze.
Oggi, a differenza del passato, sempre più fondazioni sono consapevoli della enorme diversità di approccio tra lavorare per lenire la povertà e lavorare per eliminare le diseguaglianze. E questo fa ben sperare che il contributo delle fondazioni all’eliminazione delle diseguaglianze possa diventare significativo.
[1] Ubuntu è una filosofia africana che si focalizza sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone.
È un’espressione in lingua bantu che si basa sulla empatia, la compassione e il rispetto dell’altro: “Umuntu ngumuntu ngabantu” “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. L’ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l’umanità intera, un desiderio di pace e di armonia anche con la natura