Carlo Petrini è presidente di Slow Food, associazione internazionale impegnata a promuovere un’alimentazione “buona, pulita e giusta” per tutti e a migliorare la consapevolezza sul sistema che regola la produzione alimentare. Lo abbiamo intervistato per capire se ridare il giusto valore al cibo, tutelando i lavoratori che lo producono, l’ambiente dal quale viene tratto e la biodiversità degli ecosistemi, può essere considerato un tassello importante nei percorsi di contrasto alle disuguaglianze.
Cosa è per lei l’ “Uguaglianza”?
Uguaglianza per me significa avere la consapevolezza che l’umanità intera, a prescindere dalle diversità culturali, di contesto, di pensiero e d’azione, appartiene alla stessa comunità di destino. Una comunità in cui tutto è connesso in maniera integrale e in cui tutti siamo connessi l’un l’altro. In questo scenario dobbiamo superare il concetto di individualismo e competizione, e costruire un nuovo progetto di società che pone al centro la dignità della persona umana. Su questi temi mi trovo nuovamente d’accordo con Papa Francesco, che ancora una volta ha dato prova della forza rivoluzionaria del suo pensiero. Nell’enciclica Fratelli tutti, infatti, parla di fraternità e amicizia sociale come vie maestre per delineare un mondo migliore, più giusto e pacifico, con l’impegno di tutti. Senza fraternità anche la libertà rischia di diventare un’apertura al mondo fittizia, che in realtà nasconde un deprimente individualismo e l’uguaglianza, alla stregua, un qualcosa solo di facciata, privo di alcuna sostanza.
Il cibo “Buono, giusto e pulito”, può essere considerato uno strumento per contrastare le disuguaglianze?
Il concetto del Buono, pulito e giusto si fa portatore di molteplici significati, tra cui rientra sicuramente anche l’ampio tema della disuguaglianza, su questo non c’è dubbio. Slow Food si batte da più di trent’anni affinché l’accesso al cibo “buono, pulito e giusto” sia un diritto universalmente riconosciuto, a tutti! Rivendicare il buono è un atto di rispetto verso gli altri, verso sé stessi e nei confronti della Terra. Il pulito chiama invece in causa la coscienza del limite e della responsabilità individuale, volta a favorire alimenti sostenibili lungo tutto il corso della filiera, che li porta dal campo alla tavola. Promuoverlo è parte della nostra missione di civiltà. Il giusto è la cura nei confronti di tutte le persone che lavorano a stretto contatto con la terra, che dovrebbero essere gratificate o perlomeno retribuite adeguatamente. Persone dalle quali dipende la nostra stessa sussistenza, ma che continuano ad essere considerate “ultime” e spesso invisibili, costringendole a barcamenarsi tra molteplici difficoltà pur di sopravvivere alle leggi del mercato. Per tutti questi motivi, il buono, pulito e giusto può certamente essere una linea guida da seguire per far sì che il cibo diventi uno strumento anche di lotta alla disuguaglianza.
Nel manifesto di Slow Food si parla di “diritto al piacere”, ci può spiegare in cosa consiste?
A causa dello stigma che da troppo tempo lo caratterizza e mortifica, il piacere viene percepito come una colpa, qualcosa di cui vergognarsi o, tuttalpiù, un frivolo privilegio dell’élite. Io penso invece che il diritto al piacere debba essere riconosciuto universalmente. Passando per il buono, pulito e giusto diventa piacere consapevole e, quindi, sostenibile, rappresentando così l’obiettivo finale a cui l’umanità intera dovrebbe tendere. Continuare a rinnegarlo, come è stato spesso fatto, significa non riconoscere pienamente il valore della vita stessa.
Lei ha sempre affermato che bisogna scegliere prodotti locali e stagionali per aiutare gli agricoltori del territorio e per tutelare l’ambiente: come si può sensibilizzare il consumatore che preferisce o accede più facilmente a prodotti importati, a basso costo, irrispettosi dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori?
Precondizione necessaria affinché il consumatore compia una scelta giusta è la disponibilità degli adeguati strumenti conoscitivi e informativi che ne orientino l’azione. Questo aspetto, purtroppo, è ancora spesso assente. E anche se il diretto responsabile di questa situazione è il modello agroindustriale di produzione e trasformazione del cibo, noi non possiamo ritenerci privi di colpe, anzi! Con il nostro comportamento superficiale, diventando semplici consumatori passivi, abbiamo permesso che venisse reciso il cordone ombelicale che ci teneva legati alla terra. In ultima istanza, ciò ha causato un’abissale distanza tra produzione e consumo e una miopia incapace di riconoscere il vero valore del cibo. Consumare cibo non stagionale, non badare alla provenienza degli alimenti, fare la spesa ai discount è infatti sintomo della non consapevolezza degli spaventosi costi ambientali, economici e sociali che si ripercuotono, in prima battuta, su noi consumatori e, poi, sull’intera comunità dei viventi. Un prezzo giusto dovrebbe invece essere quello reale complessivo, che considera tutti gli ambiti di interazione di un prodotto. Effettuare questo cambio richiede però uno sforzo di tutti gli attori coinvolti nel sistema alimentare: produttori, trasformatori, intermediari, distributori e consumatori. Un grande impegno che permetterebbe però di rinsaldare il legame con la Terra favorendo un sistema più equo per tutti. Ricordiamoci, infatti, che ciò che non paghi tu come consumatore al momento dell’acquisto, lo paga sicuramente qualcun’altro al posto tuo: i produttori sottopagati in nome della competitività o l’ambiente sovrasfruttato in nome dell’iperproduttivismo.
La pandemia ci ha insegnato qualcosa sull’importanza del settore agricolo e sulla tutela di coloro che vi lavorano?
La pandemia ha senz’altro portato all’attenzione di un pubblico più ampio alcune vulnerabilità dell’attuale settore agricolo e, più ampiamente, dell’intero sistema alimentare. Abbiamo visto che, senza il lavoro dei migranti, il regolare funzionamento della catena alimentare ha rischiato di essere seriamente messo a repentaglio. Molte realtà produttive virtuose, che fornivano i prodotti alla ristorazione, si sono trovate a fronteggiare un eccesso di offerta senza precedenti, trovandosi costrette a svendere i loro prodotti, o nei casi peggiori, buttarli. In ultimo, ci sono i riders, nuovi attori della catena distributiva che da qualche anno percorrono le vie delle più grandi città italiane in sella alle loro biciclette. Soggetti che già prima della pandemia sono saliti agli onori della cronaca per vicende legate alla violazione dei loro diritti. E che, anche nelle fasi più critiche della pandemia, hanno continuato a lavorare, molto spesso in situazioni che mettevano a repentaglio la loro stessa salute. Ecco, penso che nei mesi scorsi la comunità intera sia stata esposta a queste questioni. Non vorrei però che, più che di insegnamenti, si parlasse di una folgorazione temporanea. I problemi che attanagliano il sistema alimentare sono infatti, e prima di tutto, figli del nostro pensiero e della cultura all’interno del quale viene inserito. Fino a quando non accettiamo questo fatto, qualsiasi turbamento esogeno, seppur violento, potrebbe non essere abbastanza.
Perché la terra è luogo di così tante e profonde ingiustizie sociali? Potrebbe, al contrario, trasformarsi in un laboratorio di uguaglianza in Italia e nei paesi in via di sviluppo?
Lavorare la terra non è mai stato un lavoro semplice perché la terra è bassa e richiede fatica. Purtroppo, a prescindere dal periodo storico, questa affermazione ha da sempre assoggettato i contadini a ricoprire un ruolo subordinato, in cui la costante dell’ultima ruota del carro ha prevalso. Questo retaggio non può però essere usato come movente per ricommettere gli stessi errori e giustificare gli schemi, molto spesso disumani, imposti dal paradigma capitalista. Proporre un’alternativa alla narrazione passata e presente non è senz’altro compito facile, ma disponiamo di tutte le competenze e conoscenze necessarie affinché ciò avvenga. Quello che ci manca è, forse, l’umiltà e una bella dose di buona volontà. Umiltà nel riconoscere i nostri errori e nel mettere in discussione noi e il sistema vigente, e volontà nel cambiare i paradigmi, partendo dal costruire un dialogo con quelle persone che, nonostante tutto, hanno continuato a coltivare e custodire un cibo buono, pulito e giusto. Questi individui hanno molto da insegnarci: incominciare ad ascoltarli, prima di pretendere di spiegar loro come si fa a vivere, è il compito di chiunque abbia a cuore il futuro del cibo e della terra. Solo così facendo saremo in grado di trasformare i campi da luoghi di ingiustizia, in palestre di uguaglianza e civiltà.
Lei crede che le nuove generazioni siano più sensibili a queste tematiche? Che cosa vorrebbe dire loro?
Io ripongo molta fiducia nella generazione di giovani d’oggi. Soffermandoci anche solo sul contesto italiano, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, ragazze e ragazzi hanno dato prova del loro interesse per la vita pubblica, della tenacia e volontà di essere ascoltati e di farsi ascoltare. Li abbiamo visti scendere in piazza e organizzare buone azioni volte alla tutela dell’ambiente e, di volta in volta, formulare richieste concrete e precise a coloro che ci governano. Personalmente, vorrei ricordargli due pilastri fondamentali che mi auguro possano sempre accompagnare il loro attivismo e il loro impegno: la compassione e l’amicizia sociale. La compassione ci rende esseri umani attenti, in grado di intercettare le gioie e le sofferenze altrui facendole anche un po’ nostre. L’amicizia sociale invece è capace di superare qualsiasi barriera, muro, o cecità che ci invoglia a chiuderci nel nostro piccolo angolo di benessere, e pone l’universo intero come orizzonte di pensiero e azione. In presenza di uno spirito compassionevole e di un legame fraterno il risultato non può che tendere ad una società più equa, che da dignità ed esalta l’essenza dell’umanità intera. Senza distinzioni.