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La dialettica sociale crea l’uguaglianza, i social no | Giuseppe De Rita

Intervista a Giuseppe de Rita, fondatore e presidente del Censis

Rivendica l’importanza del conflitto e della dialettica sociale, ribadisce il ruolo dei corpi intermedi nell’innescare il cambiamento necessario per ridurre le disuguaglianze e si scaglia contro i social network, responsabili di avvelenare il confronto delle idee e di minare la coesione sociale. Abbiamo intervistato Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis.

Cosa significa per lei “Uguaglianza”?

L’uguaglianza è un punto di arrivo; non è mai un punto di partenza. Si dice spesso che bisogna garantire uguali opportunità, nell’accesso alla formazione, valorizzando i meriti, ecc. Invece, secondo me, l’uguaglianza è un mito da perseguire. L’uguaglianza può essere l’obiettivo mitico della politica, ma non la ricerca dell’uguaglianza in quanto tale. Possiamo tenere fisso questo obiettivo a cui tendere, ma cercando di conseguire traguardi intermedi più raggiungibili.

Quali sono oggi in Italia le maggiori disuguaglianze?

L’Italia ne ha avute tante di disuguaglianze. Io ho vissuto tutta la mia giovinezza parlando delle disuguaglianze del Mezzogiorno rispetto al Nord del Paese. Oggi, invece, le disuguaglianze sono molto più articolate, a livello quasi microeconomico e microsociale. Non è più possibile dire: “La grande disuguaglianza è questa!”. Oggi esistono tante piccole disuguaglianze, ma le uniche in grado di determinare profonde conseguenze sociali sono quelle che riguardano l’organizzazione del mondo del lavoro. Ovviamente, queste esistevano anche nell’Ottocento, ma oggi c’è un problema di meccanismo di funzionamento del mercato del lavoro che crea disuguaglianza. Ad esempio, tra lavoratori dipendenti, del pubblico o del privato, e imprenditori. Questa è una disuguaglianza che si autoalimenta e continua ad accrescere la distanza tra i due mondi.

Come si contrastano le disuguaglianze?

Soltanto attraverso la dialettica sociale. Questo è vero tanto a livello individuale, quanto in termini collettivi, ovvero attraverso l’agire dei movimenti sociali, del sindacato, dell’associazionismo. Sono convinto che sia soprattutto questo protagonismo sociale a essere in grado di attivare processi realmente in grado di combattere le disuguaglianze. La politica è miope se tenta di risolvere le disuguaglianze senza favorire la dialettica e il conflitto sociale. Per anni, nel nostro Paese, il conflitto è stato un elemento di lotta e di ottenimento di una maggiore uguaglianza. Oggi, invece, è visto con sospetto e timore, viene delegittimato, svuotato di senso. Così non si produce cambiamento.

Come si realizza l’uguaglianza in un contesto pieno di contrapposizioni e risentimento come quello attuale?

Rancore, rabbia e risentimento avvelenano la dialettica sociale. A mio avviso, il tema fondamentale nella società italiana non è la rabbia, ma la comunicazione sui social network, che accentua le distanze tra le parti e aumenta le diseguaglianze. Al contrario, se favoriamo la vita di relazione, di amicizia, di civismo, diminuiscono le distanze e aumenta la coesione. I social network sono i principali responsabili di questo problema e sono il principale ostacolo affinché questo problema possa risolversi.

La pandemia ci ha insegnato qualcosa sull’importanza del contrasto delle disuguaglianze?

L’epidemia ha sospeso tutto. Sono mesi che tutti noi viviamo sospesi e quindi non diamo luogo a dialettica e dinamiche sociali adeguate. Il tema del contrasto delle disuguaglianze è dunque congelato. Con il rischio che i progressi fatti prima si perdano al momento della ripartenza. Inoltre, la pandemia crea nuove micro-disuguaglianze, perché la crisi che l’ha seguita non ha colpito tutti i settori economici allo stesso modo.

L’Unione Europea sta contribuendo a ridurre le disuguaglianze tra gli Stati membri e all’interno dei singoli Paesi?

L’Europa è un cantiere sempre aperto. E questo è un bene. Negli ultimi anni il mantra è stato l’austerità e il rigore; invece, oggi vediamo una grande voglia di cambiamento. Secondo me, diminuiranno le distanze tra i Paesi, perché la contrattazione a Bruxelles è sicuramente vera e, quando si contratta e si produce un vero conflitto, le posizioni si avvicinano. Invece, sul fatto che Mes e Recovery Fund possano ridurre le disuguaglianze all’interno dei singoli Stati ci credo meno, perché tutto dipenderà da come i Paesi singolarmente utilizzeranno i fondi in arrivo.

Nel suo recente libro “Il lungo Mezzogiorno”, che raccoglie i suoi scritti sul tema, ribadisce che solo una società civile attiva e consapevole può innescare un vero sviluppo economico. Questa può essere la chiave per ridurre le disuguaglianze Nord-Sud?

Quando si afferma che “il sociale traina l’economico” si fa riferimento a un fenomeno di lungo periodo, che non ha un immediato riscontro nella realtà. È nel lungo periodo che si vede lo sviluppo più diffuso di quelle società che hanno fatto maggiori investimenti sul sociale, sulla formazione, sulla ricerca scientifica, sulla sanità, sulla promozione della partecipazione della società civile organizzata. Ad esempio, oggi negli Stati Uniti è in atto un processo di inversione di protagonismo: le università, le scuole, le fondazioni godono di un grande prestigio, superiore a quello degli imprenditori e dei politici. Questo è dovuto al fatto che sul lungo periodo il sociale ha un impatto più profondo e duraturo dell’economico.

Da cinquant’anni il Censis racconta e analizza il nostro Paese. Come si sono evolute le disuguaglianze? Come è cambiata la consapevolezza degli italiani rispetto a questo tema?

A questa domanda ci sono due risposte completamente diverse, a seconda se affrontiamo la questione dal punto di vista economico o da quello antropologico. Dal punto di vista economico, l’italiano di oggi tende ad accrescere le disuguaglianze, perché tende a privilegiare il risparmio all’investimento. Nei mesi più acuti della pandemia è cresciuta l’accumulazione finanziaria. Questo non fa che accrescere le disuguaglianze: chi poteva risparmiare, lo ha fatto ancora di più, evitando di fare investimenti. Gli altri hanno eroso i loro piccoli risparmi per sopravvivere. Quindi, la dimensione economica in questo nostro 2020 ha inciso profondamente sulla disuguaglianza, attraverso meccanismi di accumulazione finanziaria e di consumi del tutto inusuali. Sul piano antropologico, invece, questa crisi ha creato uniformità. Il virus colpisce tutti e ci espone tutti allo stesso pericolo. Quindi, siamo profondamente uguali. L’uniformità è data dal fatto che viviamo tutti la stessa paura e la stessa incertezza del domani