Intervista a Nicola Lagioia, scrittore
per Fondazioni dicembre 2019
La quieta promessa del mare costiero si infrangeva sulle torri di frantumazione del cementificio, sulle colonne di frazionamento della raffineria, sui laminatoi, sui parchi minerari del gigantesco complesso industriale che artigliava la città». Così Nicola Lagioia nel suo ultimo libro vincitore del Premio Strega 2015 “La ferocia”, descrive Taranto, città fatta di «capannoni e edifici mai finiti di costruire» eppure parte fondamentale di una regione meravigliosa. Nei libri di Nicola Lagioia, scrittore, conduttore radiofonico e direttore del Salone del Libro di Torino, la sua Puglia, da cui andò via molto giovane, è spesso presente e utilizzata come espediente per descrivere l’intera Italia. Un Paese, si intuisce dalle pagine dell’ultimo libro, costruito sull’imbroglio, sulla sleale amministrazione dei fondi dello stato dove il proprio benessere e la propria ricchezza sono prioritarie a qualsiasi cosa. «Ciò nonostante – ci spiega Lagioia in questa intervista -, nel Sud è custodita una parte fondamentale dell’identità italiana (e non solo di quella), senza la quale l’intero Paese crollerebbe».
Dai suoi libri si evince un grande amore per il Sud e per l’ambiente. Ne “La ferocia”, per esempio, ci sono descrizioni molto accurate di animali e piante. Lei è pugliese come vive la tragicità di una terra sottoposta a tante “violenze”?
La Puglia è un continente plurale, tanto è vero che un tempo si diceva “le Puglie”. Questo per dire che in Puglia ci sono zone in cui si vive complessivamente bene (Bari), altre tenute con molta cura (penso alla Valle d’Itria, a certe parti del Salento, alla cosiddetta Terra di Bari, a Trani ecc.) e luoghi davvero feriti, Taranto per tutti. La Puglia è un posto meraviglioso, pieno di luce, di chiaroscuri, di profondità. E poi è grande, persino più grande della sua dimensione geografica. È “il sud dei sud dei santi”, come diceva Carmelo Bene, ma è al tempo stesso la nostra porta d’Oriente.
Nei suoi libri racconta le contraddizioni di un Sud tortuoso e sfuggente. Lei ha dichiarato in varie interviste che “chi non capisce il Sud non capisce l’Italia”, che vuol dire?
Per non limitarsi solo all’Italia significa che per capire ad esempio l’Europa, oggi, non bisogna andare a Bruxelles ma a Lampedusa. Il Sud Italia in questi anni è diventato sempre più povero, meno rilevante sul piano politico, e meno popolato. Ciò nonostante, nel Sud è custodita una parte fondamentale dell’identità italiana (e non solo di quella) senza la quale l’intero paese crollerebbe.
Nei suoi libri, ma soprattutto nella “Ferocia” che ha vinto il premio Strega e Einaudi nel 2015, ci sono tanti (quasi tutti) personaggi “negativi”; dove sono i “buoni”? Secondo lei è possibile migliorare questo mondo?
I “buoni” e i “cattivi” non esistono in natura, e non dovrebbero esistere neanche nei romanzi. Infatti i romanzi sono pieni di personaggi ambigui. Ne “La ferocia” Michele e Clara fanno cose discutibili, ma vanno uno in aiuto dell’altra, e viceversa, in un modo per me gratuito, coraggioso e dunque toccante. Sono buoni o cattivi? Vittorio sembrerebbe privo di scrupoli, ma ha le sue debolezze. E così via. Il mondo si può forse migliorare, il futuro almeno nel breve termine non è mai del tutto scritto, ma non credo che chi legge un romanzo diventi per questo una persona migliore.
Uno “scrittore lento” così si è definito in varie occasioni: che vuol dire?
Vuol dire che pubblico un romanzo ogni quattro, cinque, sei anni. Il prossimo uscirà nell’autunno del 2020 e saranno sei anni esatti dall’uscita de “La ferocia”. Essere lenti significa, per me, poter lavorare su una pagina anche due settimane, se necessario, o su un capitolo due o tre mesi. Naturalmente in altri casi sono più veloce. Dipende dalle difficoltà davanti a cui mi trovo volta per volta. Per me scrivere un romanzo è un esercizio conoscitivo. Per accettare il fatto di starmene chiuso in una stanza, da solo, quattro o cinque ore al giorno, tutti i giorni, per quattro o cinque anni di seguito, comprese le domeniche, compresi certe volte Natale e Pasqua e Ferragosto, devo avere a che fare innanzitutto con un’urgenza, con la necessità di dare forma a qualcosa che per me diventa a un certo punto importantissima. Non sempre riusciamo a sintonizzarci con ciò che davvero per noi conta, non sempre riusciamo a mettere a fuoco l’urgenza, non sempre siamo capaci di trasformare quest’ultima in una vera storia. Tutto questo richiede tempo, almeno a me. William Faulkner diceva che lo scrittore è “una creatura guidata da demoni”. Io credo si tratti di un lavoro a metà tra quello dello scienziato e quello dello sciamano. Da una parte hai a che fare con la tecnica, dall’altra con i tuoi demoni. Con i secondi, non è sempre facile avere a che fare, e la prima (che in certi casi è nobile artigianato, anche quando si lavora con apparente materiale di scarto) esige molta disciplina e molto sacrificio. Sono paziente, penso sempre che il tempo sia dalla mia parte, anche se fondamentalmente so che si tratta di un’illusione.
Qual è secondo lei il ruolo dello scrittore nella società odierna?
Lo scrittore di romanzi ha solo un compito: scrivere buoni libri.
La letteratura è un prezioso bene comune, eppure i lettori in Italia sono sempre meno, è possibile incentivarla?
I lettori aumentano e diminuiscono a seconda dei libri che escono, della situazione economica (reddito e consumi culturali vanno di pari passo), del modo in cui le istituzioni promuovono la lettura (in Italia, a livello governativo, lo fanno poco e a volte male da generazioni), della politica culturale portata avanti da editori, scuole, biblioteche, librerie, circoli di lettura, festival e fiere editoriali. Nel 2018 in Italia sono stati venduti più libri rispetto all’anno precedente. È un buon segnale, ma il nostro Paese in Europa non brilla per numero di lettori.
Lei è il direttore editoriale del Salone del Libro. Pensa che questo tipo di manifestazioni contribuiscano a promuovere la cultura in Italia?
Stando ai numeri (numero di libri venduti, numero di libri letti, numero di visitatori) direi proprio di sì. Ovviamente, un Salone non fa primavera se da Torino si allarga la visuale all’intero Paese.
Dalla rivista Fondazioni novembre-dicembre 2019