Intervista a Marco Aime, antropologo
per la rivista agosto 2019
Marco Aime è antropologo e giornalista. Insegna antropologia culturale all’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa Occidentale e pubblicato favole per ragazzi, testi di narrativa e saggi. Dal 2012 partecipa ogni anno al Festival Dialoghi sull’uomo a Pistoia, promosso dal Comune e della Fondazione Caript.
Come è cambiato, secondo lei, il concetto di comunità negli ultimi trent’anni?
Da un lato si è a poco a poco spostato sul piano virtuale, quello della Rete. Sono sempre più numerose le forme di aggregazione nel web, anche se si tratta di community dai legami deboli, che solo raramente si traducono in legami offline. Dall’altro lato, la globalizzazione e i fenomeni migratori hanno innescato processi di costruzione identitaria, che sembrerebbero richiamarsi all’idea di comunità, ma in realtà si fondano solo sull’avversione verso l’altro e sulla paura. Di fatto si proiettano questi sentimenti di odio verso l’esterno, ma non si creano nuovi legami all’interno della società.
Il tempo, come lo spazio, si è ristretto negli ultimi anni: dobbiamo mettere in discussione il fatto che più veloce significhi meglio o attendere un naturale adattamento all’aumentata velocità delle nostre vite?
Non sempre la maggiore velocità si traduce in un miglioramento, almeno sul piano qualitativo. A volte l’accelerazione finisce per essere redditizia per qualcuno, ma gravosa per altri. Inoltre, occorre distinguere il razionale dal ragionevole e non sempre l’ottimizzazione (razionale) delle attività umane coincide con un principio di ragionevolezza che tenga conto di altri fattori che non siano solo il guadagno. La tecnologia si evolve in modo molto più rapido della nostra capacità di adattamento, e questo crea sensazione di inadeguatezza, che a volte si traduce in divaricazioni generazionali. La velocità, inoltre, mal si accorda con la capacità di elaborare le informazioni, che necessitano un certo tempo di sedimentazione che sempre più spesso viene a mancare.
Se la comunità deve avere come prerogativa la capacità di immaginare un futuro condiviso, secondo lei l’Europa è stata capace di far immaginare un futuro ai propri cittadini?
Lo ha fatto forse all’inizio, poi con il passare del tempo l’immagine dell’Unione Europea si è tradotta sempre più nell’immagine “economica”, delle banche. I governanti europei hanno quasi totalmente abbandonato l’idea di consolidare quei valori fondanti su cui doveva nascere la nuova Europa: solidarietà, uguaglianza, reciprocità. Si è presentata sempre di più come un organo superiore di controllo dei vari stati sovrani, le cui scelte non si sono mai tradotte in una azione collettiva condivisa. In mancanza di un progetto comune, il futuro ha un respiro sempre più corto e affannoso e il rischio è il ritorno al mito delle patrie e dei nazionalismi.
Per creare una comunità anche a livello europeo quanto è importante rimettere al centro la persona e il cittadino?
Fondamentale è creare un immaginario condiviso e per farlo servono dei rituali comuni, che rendano visibili la comunità. Occorre fare appello a valori più alti, che trascendano l’interesse particolari e che possano essere abbracciati da ogni cittadino al di là della sua appartenenza nazionale, politica o religiosa. Se non si costruisce un significato che dia senso all’Unione, questa finisce per essere vista come il luogo dei burocrati che dettano regole, puniscono e interpretano il volere dei poteri forti.
Le Fondazioni hanno un rapporto forte con il loro territorio: cosa possono fare per costruire, formare e incoraggiare cittadinanza attiva anche a livello europeo?
Credo che l’organizzazione di eventi collettivi e di iniziative che portino la gente a incontrarsi, a discutere, a scambiarsi opinioni sia fondamentale. Fare in modo che tali iniziative connettano il locale con il globale, che rendano percepibile il rischio di chiudersi nel particolare. Uno dei temi che sicuramente possono essere condivisi è quello dell’ambiente e dei rischi che corre. Ambiente che dal globale (riscaldamento climatico, desertificazione, ecc.) può essere letto attraverso il locale, con la valorizzazione del territorio non solo in chiave produttiva o speculativa, ma anche e soprattutto simbolica. Ambiente come bene culturale e soprattutto come bene comune.
Dalla rivista Fondazioni: luglio – agosto 2019