L’origine bancaria delle Fondazioni e l’evoluzione del settore bancario
L’origine bancaria delle Fondazioni è stata considerata una sorta di “peccato originale”, che ha fortemente condizionato la percezione corretta della loro identità. Le Fondazioni nacquero con la legge Amato (n. 218) del 30 luglio 1990, varata per rendere più competitivo il sistema bancario italiano in un contesto di libera concorrenza a livello europeo. Il mercato italiano era, infatti, caratterizzato, in particolare, dalla presenza di Casse di Risparmio, di Banche del Monte e di istituti di diritto pubblico, che, a causa della propria origine, erano prive di un elemento la cui assenza limitava potenzialmente la concorrenza: gli azionisti. Questi istituti, che rappresentavano la massima espressione dello spirito solidaristico delle nostre comunità, in un contesto di mutamento non risultavano più idonee a sostenere la competizione. era necessario un cambiamento, che però salvaguardasse i due elementi valoriali che Casse di Risparmio e Banche del Monte incarnavano: il saper fare banca e l’attenzione ai bisogni delle comunità. Il legislatore fece in modo che, attraverso due diverse entità, la Banca conferitaria (Casse di Risparmio Spa e Banche del Monte Spa) e la Fondazione (inizialmente chiamata ente conferente), venissero salvaguardati entrambi. L’esperimento ebbe successo.
In merito alle Banche
«Le Banche conferitarie hanno dimostrato, in un contesto nuovo, di saper fare banca – ha affermato Guzzetti -. ne sono prova tre elementi incontrovertibili. Il primo è che, grazie al ruolo sapiente di azionisti svolto dalle Fondazioni, ovviamente facendo perno sulle ottime capacità manageriali e gestionali delle Banche conferitarie e il forte radicamento territoriale che ne ha sempre caratterizzato l’azione, sono nati, attraverso processi aggregativi, due gruppi bancari che sono in grado di competere a livello internazionale al pari, o anche meglio, di tanti player stranieri: il gruppo Intesa Sanpaolo e il gruppo Unicredit. non vi è dubbio che questo rappresenta un grande risultato, che purtroppo raramente viene riconosciuto, ma che dimostra la capacità di adattamento e di cambiamento dei nostri enti. Il secondo è che, almeno sino a prima della crisi, nei processi aggregativi che si sono susseguiti, il valore di cessione delle partecipazioni delle Banche conferitarie è stato particolarmente elevato, segno evidente che questi istituti bancari erano stati in grado di accrescere il valore del proprio patrimonio grazie a una grande capacità gestionale. Il terzo è che, sebbene ridotte nel numero, le Banche conferitarie rimaste autonome mostrano tutte segni di vitalità e di dinamismo e una buona capacità di competere, grazie al presidio di nicchie di mercato non coperte da istituti di maggiore dimensione e alla focalizzazione sul servizio e sull’elemento fiduciario, che rappresentano indiscussi punti di forza. Certo, non possiamo nasconderci alcuni incidenti di percorso, che a mio avviso sono riconducibili proprio alla difficoltà di interpretare il cambiamento, o, meglio ancora, di anticiparlo. Una visione dell’identità chiusa e difensiva, quasi di arroccamento esclusivamente sull’elemento territoriale, di sovente alimentata dalla politica locale e dall’opinione pubblica da questa fomentata, ha impedito di cogliere i mutamenti di contesto che la crisi economica stava generando. Una maggiore capacità di visione avrebbe suggerito a questi istituti e alle relative Fondazioni azioniste, di percorrere la strada che avevano già intrapreso altre consorelle, evitando che la crisi ne spazzasse via il valore. Ciò non è accaduto, anche per un comportamento al limite della legalità di alcuni manager che, perseguendo finalità di carattere personale e non istituzionale, hanno compromesso la capacità competitiva di questi istituti, o hanno ostacolato, se non addirittura impedito, processi aggregativi che avrebbero salvaguardato la Banca e la relativa Fondazione… In ogni caso, questi incidenti di percorso rappresentano singoli casi di patologia all’interno di un sistema complessivamente sano. e, come ogni patologia, vanno curati individualmente, e non intervenendo per modificare, come molti vorrebbero, la fisiologia del sistema, che invece ha dimostrato di saper affrontare e gestire il cambiamento con lungimiranza».
In merito alle Fondazioni
«In loro quei geni valoriali, quello spirito solidaristico e filantropico degli enti creditizi originari hanno trovato piena espressione. nel corso degli anni, grazie agli interventi susseguitisi, nonché ai processi di autoriforma promossi in sede associativa, il ruolo delle Fondazioni è germogliato e finalmente sbocciato. Quello che sembrava essere l’unico fine costitutivo delle Fondazioni, cioè la custodia di un patrimonio azionario per consentire lo sviluppo dei nuovi istituti creditizi, è diventato un mezzo, cioè uno strumento per perseguire la loro vera missione che, come indica quella che comunemente e impropriamente chiamiamo legge Ciampi (d.lgs. 153 del 1999), è l’utilità sociale e la promozione dello sviluppo economico… la vocazione solidaristica e la forte attenzione alla comunità di riferimento hanno trovato nel corso della loro lunga storia la possibilità di manifestarsi in una molteplicità di azioni e di interventi… Ciò che è cambiato nel tempo sono le modalità attraverso le quali la loro azione trova compimento. l’accumulo di esperienza e competenza, nonché la naturale vocazione all’innovazione che caratterizza le Fondazioni, le ha spinte a cercare di perfezionare e rendere più efficienti ed efficaci le modalità di intervento. se in una fase iniziale, l’atteggiamento delle Fondazioni rispetto ai bisogni era di tipo prevalentemente reattivo, cioè di risposta alle sollecitazioni provenienti dal territorio, nel tempo esse hanno assunto e consolidato un approccio di tipo opposto, cioè proattivo. Questo approccio, che si è diffuso via via sempre più, ha modificato sia i processi che gli strumenti. La fase di rilevazione dei bisogni sui quali intervenire ha assunto una straordinaria importanza attraverso modalità di ascolto, di coinvolgimento dei territori, di costituzione di tavoli multi-attore, di attivazione di commissioni interne agli organi, di coinvolgimento di esperti, di creazione di veri e propri centri di ricerca. Voglio sottolineare – ha dichiarato Guzzetti – l’importanza dell’Organo di indirizzo delle Fondazioni quale strumento formidabile per portare al loro interno le istanze del territorio. Certo, questo è tanto più vero quanto più la sua composizione è effettuata sulla base di designazioni che privilegiano la competenza e la professionalità. Su questo, permettetemi di dirlo, dobbiamo fare ancora di più. Altrimenti, sarà sin troppo facile la rozza critica che ci viene a volte mossa che gli organi delle Fondazioni sono pletorici. L’architettura di governance duale prevista dalla 153 del 1999 è invece molto lungimirante, perché ha inteso creare all’interno della Fondazione un consesso di persone in grado di rappresentare le varie istanze e sensibilità del territorio. sta solo a noi confermare con i fatti la validità di questa scelta del legislatore. Sul piano erogativo vi è stato un fiorire di nuovi processi e strumenti, dai bandi, alla progettazione partecipata, dalla chiamata di idee alla progettazione propria, con sfumature e variazioni sul tema degne di un Bach o di un Geminiani. Ma soprattutto in due aspetti le Fondazioni hanno maggiormente posto l’attenzione e perfezionato le tecniche. Da una parte, l’accessibilità. Si è cioè cercato di intervenire sui processi per consentire a tutti coloro che possiedono i necessari requisiti di poter interagire con la Fondazione, di avere accesso alle opportunità che essa mette in campo, di poter offrire la propria competenza e capacità di innovazione alla comunità. In tal senso, i siti web sono divenuti i pilastri dei processi di accessibilità e trasparenza delle Fondazioni. Dall’altra, la valutazione. Un attento e imparziale processo di valutazione ex-ante, di monitoraggio dei progetti e di valutazione finale stanno sempre più divenendo condizioni imprescindibili per garantire trasparenza, efficienza ed efficacia degli interventi. anche in questo campo, le modalità adottate sono diverse a seconda delle esigenze, delle caratteristiche e delle sensibilità delle Fondazioni, del contesto territoriale… Bisogna, però, che non siamo vittime delle mode che, periodicamente, ci vengono proposte su sollecitazione di consulenti ed esperti esterni, che ci dicono che quello che facciamo è superato e c’è bisogno di ben altro. a me sembra invece che, spesso, ciò che ci viene proposto non sia altro che vino vecchio in botti nuove!
Gli strumenti non sono né buoni né cattivi in sé. La loro efficacia dipende esclusivamente dalla loro coerenza con la strategia che si è deciso di perseguire. A titolo provocatorio, la tanto vituperata “erogazione a pioggia” può trovare invece una propria ragion d’essere se è il frutto di una strategia di attivazione del territorio da “dietro le quinte”, per valorizzare e far emergere le energie positive presenti… prima di tutto è fondamentale avere una strategia. Solo dopo, si può scegliere nel vasto armamentario di strumenti a disposizione. Così come la trasparenza, sempre doverosa e necessaria, deve essere gestita avendo a mente che è uno strumento e non un fine in sé. La trasparenza deve consentire di evitare che i processi erogativi possano essere inquinati da elementi impropri. Ma se, in nome della trasparenza, si piegano le strategie e addirittura la missione, allora si può correre il rischio di trovarsi con procedure e processi perfetti sul piano tecnico, ma inefficaci sul piano strategico. Basti guardare a cosa succede in altri settori dove, comprensibili e doverose esigenze di trasparenza, rischiano però di bloccare interi settori e comparti. Come ogni strumento, anche la trasparenza va calibrata e dosata in funzione del fine per cui la si utilizza. Infine, la valutazione di impatto. Capire l’effetto che la nostra azione produce è non solo doveroso, ma soprattutto utile perché ci consente di migliorare e perfezionare il lavoro nostro e quello di coloro che sosteniamo. Ma anche in questo caso, dobbiamo calibrarne l’impiego, avendo sempre a mente che una buona valutazione presuppone una chiarezza degli obiettivi per cui si valuta. Se gli obiettivi di valutazione non sono chiaramente definiti, essa rischia di produrre risultati che possono a volte indurre decisioni fuorvianti. E soprattutto che, citando Einstein, “non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che può essere contato conta”. A volte è necessario rischiare, anche in assenza di strumentazione valutativa, per intraprendere strade ancora sconosciute, sperimentare e innovare».
Le possibili aggregazioni tra Fondazioni
Fra i numerosi temi che Guzzetti ha trattato c’è anche quello delle possibili aggregazioni tra Fondazioni. oggi esistono 88 Fondazioni di origine bancaria, mentre non esistono più, a seguito dei processi aggregativi, altrettante Banche conferitarie. Inoltre, più del 40% delle Fondazioni non detiene ormai alcuna partecipazione nella originaria Banca conferitaria e ha quindi reciso quel legame costitutivo. Ciò, oltre a dare prova del processo di diversificazione patrimoniale che ha interessato le Fondazioni, dimostra che quello che era un fine, cioè la gestione del patrimonio delle Banche conferitarie, è diventato un mezzo. Il patrimonio è infatti divenuto, per le Fondazioni, un mezzo per raggiungere la missione ad esse affidata. e, salvo alcune eccezioni, i patrimoni delle Fondazioni oggi presentano un grado di diversificazione adeguato, con rischi di concentrazione oramai alquanto limitati. In questo quadro, peraltro, da qualche tempo a questa parte si è iniziato a ragionare sull’opportunità di non ostacolare, o addirittura favorire, eventuali processi aggregativi tra Fondazioni. Il dibattito, avviato con la Carta delle Fondazioni approvato dall’assemblea acri del 2012, si è intensificato a seguito della firma del protocollo di intesa Acri-Mef, cioè di quello strumento di autoriforma condiviso con l’autorità di vigilanza, che 85 Fondazioni su 88 hanno sottoscritto. Ebbene, il secondo capoverso dell’art. 12 del protocollo, indica che «le Fondazioni che per le loro ridotte dimensioni patrimoniali non riescono a raggiungere una capacità tecnica, erogativa ed operativa adeguata attivano forme di collaborazione per gestire, in comune, attività operative ovvero procedono a fusioni tra enti». «L’interesse verso questa tematica – ha evidenziato Guzzetti – ha subìto un’accelerazione a seguito delle situazioni di difficoltà in cui si sono trovate alcune Fondazioni. proprio per far fronte a queste difficoltà e, al contempo, per favorire processi aggregativi, in occasione della legge di bilancio 2018, Acri si era fatta portatrice presso il Governo di una proposta per agevolare, mediante credito di imposta, questo percorso. Purtroppo, a causa di valutazioni che non ci competono, il provvedimento non ha visto la luce. Ma Acri e alcune Consulte territoriali delle Fondazioni non si sono fermate e stanno approfondendo meccanismi e strumenti che possano rendere possibili, ove necessario e opportuno, dei veri e propri processi di fusione tra Fondazioni».
Le Consulte regionali attualmente esistenti sono nove e coprono pressoché l’intero territorio nazionale. Sono libere associazioni di Fondazioni, accomunate da una medesima collocazione regionale o sovraregionale, che, in piena autonomia, hanno deciso di trovare un luogo di interazione e di scambio, non solo per condividere esperienze e competenze, ma anche e soprattutto per sperimentare forme nuove di collaborazione che possano produrre effetti più significativi su territori più vasti. Da esse sono scaturite innumerevoli iniziative in quasi tutti i settori di intervento e anche in ambiti più operativi relativi all’organizzazione interna o alla gestione del patrimonio. Tra le tante è da evidenziare la scelta dell’associazione tra le Fondazioni dell’Emilia Romagna che, per rispondere alla situazione di difficoltà che ha toccato alcune Fondazioni della regione a seguito della crisi delle relative Casse di Risparmio locali, sta realizzando un Fondo, cui contribuiscono tutte le Fondazioni del territorio, per mettere a disposizione di quei territori che hanno perso in tutto o in parte il sostegno della locale Fondazione risorse da destinare in particolare al welfare di comunità. “Un’iniziativa lodevole – ha riconosciuto guzzetti – che testimonia come la vocazione solidaristica delle Fondazioni travalichi i confini locali per diffondere oltre essi i benefici effetti della propria azione».
Guardando al futuro
Non è facile metterlo pienamente a fuoco, in un contesto che muta così rapidamente, in cui cambiano i bisogni, cambiano i punti di riferimento politico e sociale, e ciò che oggi sembra nuovo, domani può già diventare vecchio. “Posso, tuttavia, tentare di segnalare alcuni orientamenti che credo debbano indirizzare il nostro futuro – ha concluso il presidente Guzzetti -. Il primo è di intensificare la collaborazione con gli altri attori pubblici e privati che condividono gli stessi obiettivi. Sarà sempre più necessario coinvolgere le forze attive della comunità per trovare insieme le risposte ai bisogni. Non per l’esigenza di aumentare la massa critica degli interventi, ma perché in una società complessa l’azione dovrà essere sempre più di natura corale e strutturata, in cui le diverse sensibilità, esperienze e competenze della società si mettono assieme, abbattendo steccati e pregiudizi, per fornire risposte alle attese e alle speranze di chi è in difficoltà. In questo scenario, l’interlocutore privilegiato, anche se non esclusivo, è il Terzo settore, non solo per l’affinità in termini di obiettivi, ma anche perché esso rappresenta lo strumento principe della sussidiarietà orizzontale e sul quale dobbiamo fare affidamento se vogliamo contribuire a dare pienezza al dettato costituzionale.
Il secondo è proseguire verso la strada dell’innovazione sociale. Dobbiamo continuare a percorrere strade non battute per trovare soluzioni inedite. l’innovazione non è né un vezzo né un lusso: è un dovere che ci viene imposto dalla nostra natura di soggetti privati e indipendenti. Abbiamo la necessaria libertà per correre quel rischio che l’innovazione implicitamente comporta, cioè la possibilità del fallimento. Abbiamo il dovere di mettere a frutto questa libertà. Ma la propensione all’innovazione può produrre dei frutti solo se siamo in grado di dare concretezza al sistema di collaborazione che ho precedentemente indicato. L’innovazione serve per diffondere nuove e più efficaci soluzioni ai problemi. Ma se essa non trova un terreno fertile, in primo luogo istituzionale, su cui germogliare, rimarrà solo un passatempo, che soddisferà al più il desiderio e l’ego personale dei “tecnici”, senza però produrre alcun progresso. Anche in questo caso dobbiamo ricordare che l’innovazione è, per le Fondazioni, un mezzo e non un fine in sé.
Il terzo è di rafforzare, in un contesto mutevole e complesso, i presidi a salvaguardia della nostra identità di soggetti privati, indipendenti e autonomi. Per fare questo non serve tanto intessere buoni rapporti con le “persone giuste”. Servono soprattutto i buoni comportamenti. Serve un genuino spirito di servizio con il quale gli amministratori pro tempore delle Fondazioni debbono avvicinarsi al mandato che la comunità loro affida. Servono decenni per costruire una reputazione e pochi istanti per distruggerla: sta a ciascuno di noi salvaguardare e soprattutto accrescere questo patrimonio reputazionale che ci viene affidato e che è la condizione indispensabile per poter generare valore a beneficio delle nostre comunità. Se saremo in grado di accrescere la nostra reputazione, nei momenti di difficoltà non ci troveremo più soli e saranno le comunità stesse a difendere le Fondazioni perché le sentiranno un bene da salvaguardare.
Il quarto è di concentrare sempre più l’azione delle Fondazioni sul terreno del welfare nella sua più ampia accezione. perché solo una società più equa e solidale, che si prenda cura delle persone fragili e deboli, dei bambini, dei disoccupati, dei disabili, di coloro che hanno perso la fiducia e dei giovani che la fiducia invece la cercano in noi adulti, potrà avere la possibilità di prosperare. Non esiste reale sviluppo economico se questo non è in grado di ridurre prima di tutto le diseguaglianze.
Infine, non perdere mai di vista la missione che ci anima. presi come siamo da progetti, incontri, contatti, riunioni e bilanci, non è facile tenere sempre la barra dritta. La nostra missione non è fare erogazioni. Queste, come il patrimonio e la rete di relazioni e collaborazioni, sono solo strumenti. La nostra missione è accrescere il capitale sociale delle nostre comunità, perché grazie a questo esse possano progredire e prosperare. e dobbiamo contribuire ad accrescerlo talmente tanto fino al punto che un giorno, anche grazie al nostro contributo, le comunità avranno talmente interiorizzato i valori della solidarietà, della coesione, della pacifica convivenza da non avere più bisogno di noi».