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Poggia su risorse endogene lo sviluppo dei territori

L’attivazione delle risorse endogene dei territori è la sola chiave perché ci sia un vero sviluppo locale. È questo quanto emerso dall’incontro dal titolo “Attivare le risorse delle comunità”, che lo scorso 24 gennaio ha riunito a Roma una cinquantina fra Direttori e Segretari generali delle Fondazioni associate ad Acri. Solo stimolando e aggregando i soggetti che vivono in un territorio – è stato detto dai vari protagonisti intervenuti –, ascoltando i loro bisogni e supportando cittadini, terzo settore e imprese in una ricerca di soluzioni che li vedano protagonisti in prima persona, è possibile produrre un cambiamento profondo e duraturo nelle realtà territoriali. È un ruolo questo che possono e debbono svolgere le Fondazioni di origine bancaria, che così adempiono alla loro missione di attivatori sociali e di catalizzatori delle migliori risorse delle comunità in cui operano. «In 25 anni di attività le Fondazioni hanno dimostrato di essere in grado di farlo – ha sostenuto Giorgio Righetti, direttore generale di Acri, che ha aperto i lavori della giornata – perché sanno ascoltare i territori e intercettarne i bisogni, sanno aggregare diversi soggetti (istituzioni, non profit, università) intorno a obiettivi comuni, sanno sperimentare formule innovative».

L’incontro si è articolato in una tavola rotonda, che ha fatto seguito alla relazione di Luigi Burroni, professore associato di Scienze politiche e sociali all’Università degli Studi di Firenze, di cui a seguire riportiamo una sintesi. Nella tavola rotonda le testimonianze di rappresentanti del mondo delle Fondazioni di origine bancaria si sono alternate a quelle di altri soggetti che svolgono un ruolo di corpi intermedi della società, come la stessa Fondazione con il Sud, il cui presidente, Carlo Borgomeo, ha coordinato il dibattito e ha portato esperienze dirette di quanto lo sviluppo, soprattutto nel Mezzogiorno, possa trovare radici persistenti solo se punta su fattori endogeni. Un esempio per tutti è quello della riconversione dei beni confiscati alle mafie in spazi da mettere a disposizione delle comunità. Ma anche storie minori, come quella del successo di un vecchio birrificio di Messina che è stato rilevato dagli operai riunitisi in cooperativa, o quella del recupero nel palermitano della tradizionale produzione della manna da frassino: un prodotto ormai molto ricercato dall’industria cosmetica. E dalla Sicilia è arrivata anche la testimonianza di Gaetano Giunta, segretario generale della Fondazione di comunità di Messina, che ha presentato la sua visione di un “welfare emancipatorio”, cioè in grado di “liberare” le persone, considerandole risorse e protagonisti dei progetti e non solo beneficiari. A suffragio della sua tesi ha presentato l’esperienza di un parco fotovoltaico diffuso che la sua Fondazione è riuscita ad attivare nella città coinvolgendo istituzioni, imprese e famiglie.

Gli ha fatto eco Fulvia Marchiani, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Loreto, che ha presentato il Progetto Rete Sociale, un’iniziativa per la cui realizzazione è stato necessario un profondo ripensamento interno alla Fondazione sulle sue modalità di intervento. Si tratta di un progetto che, a fronte di un monte piuttosto limitato di risorse messe a disposizione dalla Fondazione, è riuscito a mettere in rete i servizi sociali del Comune e quelli di tutte le organizzazioni già partner della Fondazione in altri progetti a favore dei soggetti fragili e delle famiglie con difficoltà economiche. L’iniziativa si è rivelata talmente efficace che altre organizzazioni attive nel territorio sul medesimo fronte stanno chiedendo di aderire a questo piano collettivo.

È quindi intervenuto Gregorio Arena, presidente di Labsus – Laboratorio per la sussidiarietà, attivo da anni nel valorizzare le esperienze dei cittadini volte a rivitalizzare i beni comuni delle loro città. Nel 2014 Labsus ha redatto un Regolamento sui beni comuni a disposizione degli Enti locali, che è stato adottato finora da 110 Comuni in tutta Italia, fornendo una cornice giuridica di riferimento in cui si possa esprimere in maniera adeguata questo fenomeno, ormai largamente diffuso. Secondo l’Istat il 16% dei tre milioni di volontari individuali italiani si occupa della cura di beni comuni. Grazie all’adozione del Regolamento sui beni comuni da parte degli Enti locali, i cittadini e le istituzioni attraverso “patti di collaborazione” possono accordarsi per recuperare un bene pubblico abbandonato (Legambiente ne ha contati 5 milioni in tutta la Penisola) e trasformarlo in un “bene comune” a disposizione dell’intera comunità. Un simile intervento non solo determina il ripristino del bene, ma produce anche “senso di comunità”, crea aggregazione e garantisce la cura e la manutenzione del bene nel tempo. In questo processo – ha suggerito Arena – potrebbero scegliere di essere coinvolte le Fondazioni di origine bancaria (come già avviene in alcuni casi), dando vita a patti a tre gambe cittadini-istituzioni- Fondazioni, in cui quest’ultime, oltre all’erogazione, agirebbero da garanti della corretta gestione delle risorse. Proprio per valorizzare il senso di comunità nella sua provincia, da qualche anno la Fondazione Carispezia ha avviato un percorso che dovrebbe portare alla nascita della locale fondazione di comunità. Ne ha dato conto nel suo intervento Giulia Micheloni, consigliere della Fondazione, che ha raccontato di quanto complesso e travagliato sia stato il percorso fino a oggi. Dopo una partenza stentata, la Fondazione ha deciso di puntare sull’ascolto della comunità e da qui individuare i bisogni attorno ai quali aggregare i soggetti da coinvolgere; saranno poi questi i veri promotori della fondazione comunitaria. La Fondazione Carispezia per se stessa ha ritagliato un ruolo da attivatore e catalizzatore di iniziativa, che finora non le ha comportato alcun esborso di risorse. Laddove invece l’iniziativa è stata nelle mani dei cittadini è nell’esperienza degli abitanti di un piccolissimo comune dell’Appenino emiliano, Succiso (Re), di cui ha parlato Giovanni Teneggi, direttore di Confcooperative Reggio Emilia. L’ha portata come esempio di cooperazione comunitaria, basata su una “nuova mutualità”, grazie alla quale le poche persone rimaste in un borgo, ormai quasi abbandonato e svuotato di attività, l’hanno rivitalizzato accollandosi la gestione di beni e servizi che sarebbero venuti meno se questi cittadini non fossero intervenuti. Ha concluso la serie di testimonianze il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi Giuseppe Schena, presentando alcuni progetti della sua Fondazione in vari campi – dalla cultura alla scuola, dal welfare allo sviluppo locale – in cui il paradigma di intervento della Fondazione è cambiato del tutto, passando da un approccio meramente grant giving a un atteggiamento proattivo, rafforzando l’azione di proposta e di controllo sulle iniziative sostenute. Ciò grazie anche all’autorevolezza e alla credibilità via via acquisite sul territorio.

 

 

“Fondazioni” marzo-aprile 2017