In un continuo andirivieni dalla modernità alla storia, a cavallo degli anni Venti, in Italia e in Europa si sviluppa un gusto, una fascinazione, un linguaggio che, con il nome di Art Déco, caratterizzò l’intera produzione non solo artistica di quel periodo, con esiti successivi soprattutto in America, a valle della crisi del ‘29. Alla produzione, soprattutto italiana, ispirata da quel gusto dedica una grande esposizione, fino al 18 giugno presso i Musei San Domenico, la città di Forlì, con il contributo della locale Fondazione Cassa di Risparmio. Il nuovo evento espositivo forlivese, che arriva dopo il successo delle grandi mostre sul Novecento e il Liberty allestite negli anni scorsi sempre con il sostegno della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, attraverso le immagini propone la rilettura di una serie di avvenimenti storico-culturali e di fenomeni artistici legati a un periodo che fu particolarmente effervescente e caratterizzato da uno stile di vita eclettico, mondano, internazionale.
Dopo la dissoluzione nella Grande guerra degli ultimi miti ottocenteschi e la mimesi della realtà industriale, con la logica dei suoi processi produttivi, mentre la storia già disegnava, tra guerra, rivoluzioni e inflazione, l’orizzonte cupo dei totalitarismi, la grande borghesia internazionale vuol mordere la vita con sfrenatezza, abbandonandosi alla ricerca del lusso e di una piacevolezza del vivere, tanto più intensi quanto effimeri. Sono gli anni “ruggenti”! È allora che si definisce quel gusto chiamato “Stile 1925”, dall’anno della nota Esposizione universale di Parigi dedicata alle Arts Decoratifs, da cui la fortunata formula Art Déco, che ne sancì morfologie e modelli, da cui si svilupparono via via declinazioni e caratterizzazioni nazionali, come mostrano non solo le numerosissime opere architettoniche, pittoriche e scultoree, ma soprattutto la straordinaria produzione di arti decorative. Agli inizi l’Art Déco fu in continuità con il Liberty, che lo precede cronologicamente, ma poi lo superò, fino alla contrapposizione. La differenza tra l’idealismo dell’Art Nouveau e il razionalismo del Déco appare sostanziale. L’idea stessa di modernità, la produzione industriale dell’oggetto artistico, il concetto di bellezza nella quotidianità mutano radicalmente. Con il superamento della linea flessuosa, serpentina e asimmetrica, legata a una concezione simbolista che vedeva nella natura vegetale e animale le leggi fondamentali dell’universo, nasce un nuovo linguaggio artistico. La spinta vitalistica delle avanguardie storiche e la rivoluzione industriale al mito della natura sostituiscono lo spirito della macchina, le geometrie degli ingranaggi, le forme prismatiche dei grattacieli, le luci artificiali della città.
Il gusto Déco fu lo stile delle sale cinematografiche, delle stazioni ferroviarie, dei teatri, dei transatlantici, dei palazzi pubblici, delle grandi residenze borghesi: si trattò, soprattutto, di un formulario stilistico, dai tratti chiaramente riconoscibili, che ha influenzato a livelli diversi tutta la produzione di arti decorative, dagli arredi alle ceramiche, dai vetri ai ferri battuti, dall’oreficeria ai tessuti alla moda negli anni Venti e nei primissimi anni Trenta, così come la forma delle automobili, la cartellonistica pubblicitaria, la scultura e la pittura in funzione decorativa. Le ragioni di questo nuovo sistema espressivo e di gusto si riconoscono in diversi movimenti di avanguardia (le Secessioni mitteleuropee, il Cubismo e il Fauvismo, il Futurismo) cui partecipano diversi artisti quali Picasso, Matisse, Lhote, Schad, mentre tra i protagonisti internazionali del gusto vanno menzionati almeno i nomi di Ruhlmann, Lalique, Brandt, Dupas, Cartier, così come la ritrattistica aristocratica e mondana di Tamara de Lempicka e le sculture di Chiparus, che alimenta il mito della danzatrice Isadora Duncan.
Ma la mostra di Forlì ha soprattutto una declinazione italiana, dando ragione delle biennali internazionali di arti decorative di Monza del 1923, del 1925, del 1927 e del 1930, oltre naturalmente dell’Expo di Parigi 1925 e 1930 e di Barcellona 1929. Il fenomeno Déco attraversò con una forza dirompente il decennio 1919-1929, impersonando il vigore dell’alta produzione artigianale e proto industriale e contribuendo alla nascita del design e del “Made in Italy”.
La richiesta di un mercato sempre più assetato di novità, ma allo stesso tempo nostalgico della tradizione dell’artigianato artistico italiano, aveva fatto letteralmente esplodere negli anni Venti una produzione straordinaria di oggetti e di forme decorative: dagli impianti di illuminazione di Martinuzzi, di Venini e della Fontana Arte di Pietro Chiesa alle ceramiche di Gio Ponti, Giovanni Gariboldi, Guido Andloviz, dalle sculture di Adolfo Wildt, Arturo Martini e Libero Andreotti alle statuine Lenci o alle originalissime sculture di Sirio Tofanari, dalle bizantine oreficerie di Ravasco agli argenti dei Finzi, dagli arredi di Buzzi, Ponti, Lancia, Portaluppi alle sete preziose di Ravasi, Ratti e Fortuny, come agli arazzi in panno di Depero.
Obiettivo dell’esposizione è mostrare al pubblico il livello qualitativo, l’originalità e l’importanza che le arti decorative moderne hanno avuto nella cultura artistica italiana, connotando profondamente i caratteri del Déco anche in relazione alle arti figurative: la grande pittura e la grande scultura. Sono qui essenziali i racconti delle opere di Galileo Chini, pittore e ceramista, affiancato da grandi maestri come Vittorio zecchin e Guido Andloviz, che guardarono a Klimt e alla Secessione viennese, ma anche quelli dei maestri faentini Domenico Rambelli, Francesco Nonni e Pietro Melandri. Ci sono poi le invenzioni del secondo futurismo di Fortunato Depero e Tullio Mazzotti, i dipinti, tra gli altri, di Severini, Casorati, Martini, Cagnaccio di San Pietro, Bocchi, Bonazza, Timmel, Bucci, Marchig, oppi; il tutto accompagnato dalla straordinaria produzione della Richard-Ginori ideata dall’architetto Gio Ponti e da emblematici esempi francesi, austriaci e tedeschi, fino ad arrivare al passaggio di testimone agli Stati Uniti e al Déco americano.
Non si è mai allestita in Italia una mostra così completa dedicata a questo variegato mondo di invenzioni, che non solo produce affascinanti contaminazioni con il gusto moderno – si pensi per esempio al quartiere Coppedè a Roma o al Vittoriale degli Italiani, ultima residenza di Gabriele d’Annunzio – ma evoca atmosfere anche dal mondo mediterraneo della classicità, basti pensare al rilanciò in Europa della passione per ciò che veniva dall’Egitto, dopo la scoperta nel 1922 della tomba di Tutankhamon. E poi echi persiani, giapponesi, africani a suggerire lontananze e alterità, sogni e fughe dal quotidiano, in un continuo oscillare dalla modernità alla storia. Trattandosi di un gusto e di uno stile di vita non mancarono influenze e corrispondenze col cinema, il teatro, la letteratura, le riviste, la moda, la musica. Da Hollywood (con le Parade di Lloyd Bacon o le dive, come Greta Garbo e Marlene Dietrich, o divi come Rodolfo Valentino) alle pagine indimenticabili de Il grande Gatsby (1925) di Francis Scott Fitzgerald, di Agata Christie, di oscar Wilde e di Gabriele D’Annunzio.
La mostra è curata da Valerio Terraroli, con la collaborazione di Claudia Casali e Stefania Cretella, ed è diretta da Gianfranco Brunelli. Il prestigioso comitato scientifico è presieduto da Antonio Paolucci.
In foto dall’alto: Leopoldo Metlicovitz, “Turandot”, 1926, litografia a colori (part.); Tamara de Lempicka, “La sciarpa blu”, 1930; Alberto Martini, “Ritratto di Wally Toscanini”, 1925; Arturo Martini, “La Nena”, 1930