Per creare “Coesione, sviluppo, innovazione” in un processo virtuoso di crescita progressiva, dove non c’è sviluppo senza coesione sociale e dove lo sviluppo è frutto e motore di innovazione e, al tempo stesso, volano di nuova coesione, le risorse economico-finanziarie sono un elemento necessario, uno strumento, non in se stesso sufficiente. Cruciale e imprescindibile è il fattore umano, nel suo ruolo di protagonista di organismi, reti, relazioni capaci di cambiare la società dall’interno, tramite un agire dialogante con gli altri attori pubblici e privati, profit e non profit operanti sui territori. In estrema sintesi sembra essere questo il messaggio forte che emerge dai lavori congressuali del pomeriggio del 18 giugno, interamente dedicati al ruolo delle Fondazioni di origine bancaria. L’incontro, coordinato dal direttore generale dell’Acri Giorgio Righetti, si è aperto con la relazione di Giuseppe De Rita, presidente della Fondazione Censis, che ha innanzitutto posto l’accento sul ruolo della sussidiarietà nella creazione della coesione sociale in Italia. «La coesione sociale – ha detto – è avvenuta attraverso una sussidiarietà quasi naturale, quasi spontanea, di cui non conoscevamo la forza… Oggi non è più lo Stato che garantisce la coesione sociale… I meccanismi sistemici (di welfare) non funzionano più, sono destinati ad avere sempre meno soldi; quindi questa crescita di una diffusa sussidiarietà spontanea, quasi implicita, va studiata e va capita… Quella che caratterizza il sociale in Italia oggi è una sussidiarietà molecolare. Ma c’è un problema, che è il problema del futuro… Ormai il sociale italiano è orizzontale e disperso; possiamo pensare invece di andare verso un orizzontale che comincia a concentrarsi? … Il primo modo di mettere insieme interventi molecolari e dispersi è nella comunità; è nel territorio che si può mettere insieme… Il livello del welfare comunitario mi sembra importante – ha continuato –… Va fatto un lavoro sulla comunità. Quel lavoro in tanti anni di attività dell’Acri è stato fatto. Personalmente ritengo che, con un po’ di coraggio e un po’ di dimenticanza di sé, che le singole Fondazioni dovrebbero avere, si può fare il passaggio dalla dimensione di sussidiarietà molecolare alla dimensione del welfare comunitario fino al passaggio ulteriore dal welfare comunitario a un welfare che tenga conto di un’area vasta, su cui il problema dei collegamenti fra settori delle innovazioni, delle sperimentazioni, delle cose che creano il nuovo sociale non sia affidato soltanto alla bravura dei singoli che si sono inventati tutto quello che c’è in questo momento, ma possa esser dato anche da un governo non verticistico, da un governo partecipato quale è sempre stato quello del vostro mondo».
E a portare la testimonianza di quella che è la realizzazione del welfare di comunità dal punto di vista delle Fondazioni di origine bancaria è stato uno dei quattro vicepresidenti dell’Acri, Vincenzo Marini Marini, che ha coordinato il gruppo di lavoro creato all’interno dell’Associazione per approfondire il tema, anche in termini metodologici e di definizione delle best practice.
Alla tavola rotonda che ha fatto da corona alle due relazioni iniziali ha dato, per primo, il suo contributo Pietro Barbieri, portavoce del Forum del Terzo Settore, che su tutto ha evidenziato due elementi: la necessità della co-progettazione, come era prevista dalla legge 328 del 2000, quale chiave centrale su cui rimettere in moto l’idea della coesione sociale; l’affidamento agli organismi di terzo settore per accreditamento e non per gare al massimo ribasso. «Nel 2006 – ha affermato – siamo stati vittime della direttiva europea sulle gare. Quella direttiva ha innescato un meccanismo che non appartiene al nostro mondo, che è solidale e non competitivo per natura; ha messo in piedi un’idea di concorrenza fondata sulla competizione e ha spostato quindi verso l’amministrazione locale la decisione di chi sono i soggetti che interloquiscono, che fanno, che operano, ponendo così l’accento sull’offerta e non sulla domanda. L’accreditamento, al contrario, faceva un percorso inverso, dava al cittadino l’opportunità di scegliere il luogo migliore dove essere preso in carico, con cui trovarsi in relazione e via discorrendo. Allora, attenzione! Perché probabilmente questo è il nucleo, il passaggio fondamentale: se vogliamo parlare di coesione dobbiamo tornare a fondamenti di condivisione e non certo di competitività esasperata».
Claudia Fiaschi, vicepresidente di Confcooperative, ha ricordato come il mondo della cooperazione sociale sia molto vicino alle Fondazioni di origine bancaria, non solo perché destinatario importante di risorse per progettualità che le Fondazioni stimolano, ma anche in termini di visione strategica. Fiaschi ha posto l’accento sul tema di quale sviluppo realizzare. Non ci si può accontentare, infatti, di uno sviluppo fine a se stesso, ma c’è bisogno di uno sviluppo equilibrato, uno sviluppo sostenibile, equo e dove, soprattutto, il benessere individuale è il risultato di un benessere collettivo.
Ivanohe Lo Bello, vicepresidente di Confindustria per l’education, ha sottolineato l’importanza strategica dell’educazione e della formazione quale motore di innovazione, coesione e sviluppo, «perchè la crisi economica che abbiamo vissuto dal 2008 a oggi – ha dichiarato – è stata allo stesso tempo una profonda recessione ma anche un profondissimo cambiamento della struttura sociale, economica e tecnologica ». Quindi, ha spiegato: «la vera coesione sociale la si fa investendo su scuola, università, ricerca e innovazione; perché, se vogliamo nel tempo costruire una capacità di crescita del nostro Paese, non possiamo andare indietro con modelli un po’ consociativi o modelli che in qualche modo cercano di trovare delle soluzioni temporanee o di breve periodo… In tutti i grandi paesi c’è uno spostamento radicale delle competenze e dei ruoli e dei percorsi scolastici che si stanno collocando sempre di più su livelli alti… Il nostro Paese sotto questo profilo presenta un elemento di debolezza, nel senso che c’è una fortissima polarizzazione tra un picco di competenze serie e poi una massa di competenze che ancora sono in qualche modo legate ai vecchi modelli. La coesione la si fa rafforzando la capacità e le competenze dei ragazzi».
Punto chiave dell’intervento di Don Domenico Santangelo, vicedirettore dell’Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro della Conferenza Episcopale Italiana, è stato, invece, l’inclusività. «La sfida fondamentale a cui la Chiesa, ma credo ogni attore che abbia a cuore veramente il bene comune di ciascuno e di tutti, – ha detto – consiste propriamente nell’inquadrare, decifrare e strutturare azioni, percorsi ideali da un lato, progetti, valori, ma insieme attività concrete di sviluppo dall’altro: uno sviluppo che sia coeso e sia innovativo, dove il tratto di unione tra questi tre termini è nel valore dell’inclusività. Perché è l’inclusività la cifra qualitativa che decifra proprio il modo in cui rendere uno sviluppo vero e concretamente efficace… L’inclusività, per ciascuno e per tutti, da condizioni di vita meno umane a condizioni di vita più umane è il di più che fa la differenza. È questo di più che individua quale sviluppo è da compiere e da realizzare».
La parola è passata, quindi, a Felice Scalvini, presidente di Assifero, che ha dissentito dalla visione di De Rita riguardo a un welfare molecolare, ricordando che tra Fondazioni di origine bancaria e fondazioni civili sul fronte del welfare si mette in campo una cifra di circa 400 milioni di euro l’anno, più o meno analoga al fondo nazionale per il welfare stanziato dal Governo. «Noi – ha dichiarato – come Fondazioni sostanzialmente abbiamo di fronte dei distretti produttivi di welfare con produttori molto diversificati… un sistema industriale, spontaneo di tipo distrettualistico, con l’unica differenza che anziché cercare di vendere i prodotti in giro per il mondo vende i servizi al vicino di casa. Rispetto a questo mondo, le Fondazioni cosa possono fare? La sfida del welfare di comunità mi sembra una sfida decisiva. Però quello che ci chiediamo, dentro Assifero, e quello che vi chiedo è: se la cifra in campo da parte nostra è di 400 milioni non è forse fondamentale riuscire ad allocare queste risorse su alcuni fattori strategici, di consolidamento o sviluppo di lungo periodo?… Dove mettere queste risorse credo sia il problema che hanno le Fondazioni di Assifero e le Fondazioni di Acri. Abbiamo delle risorse e siamo gli unici soggetti che nel sistema di welfare possono distribuire incentivi con libertà: io credo che questa libertà dobbiamo impiegarla bene. Per questo ritengo che dobbiamo riuscire a studiare meccanismi di erogazione delle risorse, di attribuzione di incentivi che generino coesione».
Righetti ha poi passato la parola all’economista Carlo Trigilia, che sta curando una sperimentazione su come si possono affinare le metodologie di intervento delle Fondazioni per favorire e stimolare lo sviluppo locale. Trigilia ha segnalato che l’Italia dispone di risorse potenziali per la crescita spesso maggiori di altri paesi e molto radicate nei singoli territori. La loro attivazione, ha affermato, «non è in prima battuta un problema di risorse finanziarie. È invece un problema di beni collettivi materiali e immateriali, cioè qualcosa di cui gli operatori economici hanno bisogno ma che non sono in grado di produrre da soli», come, per esempio, il capitale umano specifico di quel determinato territorio. «Quindi un capitale umano tarato sulle potenzialità di uno specifico territorio e la connessione efficace tra esigenze di innovazione delle imprese e conoscenze detenute dal mondo delle università è necessario per la loro attivazione… Oggi per un paese come l’Italia non c’è futuro in termini di coesione sociale se non c’è innovazione – ha detto –. Perché non possiamo e non potremo permetterci un sistema di protezione sociale, possibilmente anche migliore di quello che abbiamo, se non spostiamo le nostre capacità, la nostra economia, verso settori di alta qualità e di alta innovazione che ci permettano di mantenere questa coesione sociale… Il capitale umano, la coesione sociale, la capacità di fare dialogare imprese e mondo dell’università e della ricerca e quindi di valorizzare le conoscenze che abbiamo nelle nostre università: tutto questo si profila come un bene collettivo, qualche cosa che il singolo operatore economico del territorio non può produrre da solo. La produzione di questi beni collettivi – ha concluso – richiede almeno tre dimensioni: la buona cooperazione tra operatori privati e pubblici locali; un disegno condiviso e una strategia di medio lungo termine; la costruzione di reti cooperative, di ponti, di strutture di raccordo. Richiede, infine, la realizzazione concreta di alcune iniziative essenziali di carattere strategico per il territorio, capaci di smuovere, di avere un effetto leva e di trascinare anche gli altri attori. È a questo punto che entrano in ballo le Fondazioni che, proprio per il ruolo, spesso criticato, di soggetti che non devono rispondere al mercato e alla politica, possono avere per la loro terzietà e la loro governance uno sguardo lungo, non schiacciato sulle esigenze di redditività a breve del mercato e di redditività in termini di consenso della politica».
Il pomeriggio, che si era aperto con la relazione di uno dei quattro vicepresidenti dell’Acri, Vincenzo Marini Marini, si è concluso con gli interventi degli altri tre vicepresidenti: Matteo Melley, Umberto Tombari, Luca Remmert. Per primo ha parlato Melley, che alla necessità di coordinare il welfare molecolare individuato da De Rita ha dato una possibile risposta, proponendo un rafforzamento e una maggior diffusione delle Fondazioni di comunità. Realizzate finora soprattutto dalle Fondazioni di origine bancaria più grandi e dalla Fondazione con il Sud, esse potrebbero invece coinvolgere sempre più anche le Fondazioni minori. È, però, necessario che queste attivino un simile strumento con la prospettiva di un maggior coinvolgimento economico e decisionale degli altri soggetti del territorio, anche cedendo, eventualmente, parte della loro “sovranità” sul progetto. Le Fondazioni minori possono offrire, infatti, una leva finanziaria più contenuta rispetto a quella messa in campo dalle loro “sorelle maggiori”, «ma possono metterci altrettanto impegno – ha detto Melley – … Si tratta di inserirci concretamente a livello dell’organizzazione del terzo settore, dei semplici cittadini, per metterci insieme creando uno strumento permanente che ha due grandi opportunità: offrire la possibilità sia di una più ampia analisi dei bisogni sia di fare qualcosa tutti insieme, valorizzando le risorse della comunità, anziche limitarsi a chiedere che cosa fare insieme… Creare una Fondazione di comunità con questa impostazione dal basso è complicato, è faticoso, impiega risorse, c’è quella rinuncia alla sovranità che legittimamente rivendichiamo, può fallire. Ma qualora si riuscisse, io credo non avremmo più troppi dilemmi sul futuro delle nostre Fondazioni all’interno delle comunità».
Tombari, invece, si è soffermato soprattutto sull’agire odierno della Fondazione che egli guida, l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, che per mettere a punto e sostenere una strategia a vantaggio della crescita del suo territorio ha allargato l’orizzonte delle proprie partnership e collaborazioni dal locale all’internazionale «per provare a offrire alla comunità, anche internazionale, un paniere di progetti che l’Ente è disposto a gestire, e naturalmente a cofinanziare, ma sul quale chiamare altre forze a erogare».
A Remmert, infine, il compito di sviscerare il tema del rapporto tra le Fondazioni e gli Enti Locali. «In un modo o nell’altro, questo rapporto è un rapporto intenso e strettamente collegato – ha detto –. Credo che non solo possiamo affermare, ma anche i nostri comportamenti ci danno questa dimostrazione, che le Fondazioni sono ormai assolutamente compartecipi alla strategia dello sviluppo locale… Sviluppo che è questione complicata, ma io credo che noi non dobbiamo e non possiamo sottrarci a partecipare alla discussione pubblica sul futuro del nostro territorio e del nostro Paese… E allora come vogliamo partecipare?… Portando idee, ancora prima che risorse. Entrando, con coraggio, nella sostanza dei progetti, proponendo all’interno dei progetti dei veri e propri cronoprogrammi. Proponendo degli impegni finanziari di medio e lungo periodo. Facendo tutto questo con estremo rigore. Mettendo gli obiettivi di lungo periodo sopra alla contingenza e all’emergenza, per le quali spesso veniamo, invece, “tirati per la giacchetta”. Insomma, partecipando ma rimanendo chiaramente autonomi, indipendenti, assolutamente terzi rispetto alla politica. E, per finire, proponendo soluzioni innovative».