Dirigere e amministrare una fondazione comporta le medesime difficoltà che affronta un imprenditore nella conduzione della propria impresa o un amministratore delegato nel gestire una società quotata. Criticità sorgono anche a causa della scarsa misurabilità dei risultati prodotti da progetti sociali di lungo respiro finalizzati al contrasto di specifiche situazioni di disagio o carenza (culturale, sanitaria, artistica, etc.) sul territorio o sulla fascia di popolazione obiettivo. Stante tale complessità di fondo, le problematiche di governo di queste istituzioni rappresentano un punto di riflessione fondamentale. È necessario dotare le fondazioni di risorse e competenze adeguate e di processi e meccanismi di governo efficaci. Qualità, competenza e adeguatezza dei meccanismi di funzionamento dei consigli di amministrazione rappresentano condizioni necessarie per garantire l’efficacia e l’efficienza dell’operato delle Fondazioni. Fabrizio Cerbioni, professore ordinario di Economia aziendale presso l’Università degli Studi di Padova, e Giacomo Boesso, professore associato presso la stessa cattedra, con il volume “La governance delle fondazioni: leader al servizio della filantropia” (McGraw- Hill editore, costo 25 euro) offrono interessanti spunti di riflessione scattando una fotografia del modello di governo a oggi adottato dalle principali fondazioni italiane, a valle di un’accurata ricognizione sul campo. I due autori approfondiscono il tema considerando quasi 150 variabili utili a rilevare l’attitudine degli organi delle fondazioni a perseguire adeguatamente i profili strategici della gestione secondo criteri di efficacia e di efficienza. Ne emerge un quadro variegato, non riconducibile alla diversa natura delle fondazioni o a elementi di natura dimensionale o territoriale, che evidenzia come non si possa affermare a priori se un modello sia migliore o meno di un altro. Il volume di Boesso e Cerbioni per la prima volta, sulla base di un’indagine rigorosa, mette chiaramente a fuoco il ruolo svolto dagli amministratori nel caratterizzare il modello gestionale di una fondazione e la sua capacità di adattarsi a fronte di modifiche nelle strategie perseguite per centrare gli obiettivi sociali auspicati. Esso dimostra che in una fondazione convivono la necessità di rappresentare democraticamente i cittadini e quella di coinvolgere gli stakeholder, cooptare nei Cda le competenze specialistiche necessarie per investire al meglio il patrimonio fondante e mettere ogni amministratore concretamente al servizio della fondazione e che, soprattutto, non esiste una “ricetta” a priori per combinare al meglio i diversi ingredienti. Al professor Cerbioni abbiamo rivolto qualche domanda per focalizzare quanto emerge dalla sua analisi in particolare riguardo alle Fondazioni di origine bancaria (Fob).
Le caratteristiche istituzionali proprie delle Fob determinano anche il loro modello gestionale o questo ne è indipendente?
Di fatto il modello gestionale è tendenzialmente indipendente dalle caratteristiche istituzionali. Il modello duale normato per le Fob è, infatti, idoneo per favorire l’integrazione tra le diverse funzioni: quella dell’organo di indirizzo, che sostanzialmente provvede all’esercizio democratico delle decisioni, e quella dell’organo di amministrazione, che ha compiti gestionali. Se questi organi riescono a bilanciare i diversi obiettivi, la Fondazione ne beneficerà in termini di efficienza ed efficacia qualsiasi modello gestionale si decida di perseguire.
Quanto la componente manageriale, oltre quella finanziaria, qualifica il ruolo delle Fob come agente di innovazione e di sviluppo sul territorio?
La scelta di nominare all’interno del board manager competenti per le aree di intervento (arte, cultura, sanità, ecc.) è irrinunciabile nel valutare possibili diverse linee di intervento. Analogamente, i membri del board con minori competenze settoriali, ma magari esperti finanziari o di normative, sono “cervelli” fertili per attività mirate di formazione sulle linee di intervento non profit portate avanti con successo da altre fondazioni italiane e straniere. Se c’è capitale umano nel Cda, questo apprende alla svelta e può muoversi con successo anche su iniziative mai sperimentate prima nella propria vita professionale.
Al di là della comune disciplina, le Fob, dunque, si differenziano fra loro anche per le peculiarità del loro modello di governance?
La normativa è la stessa per tutte. Ma la flessibilità nel formare le squadre di governo e farle lavorare può portare a risultati molto diversi sia per le Fondazioni che privilegiano il mecenatismo puro (le erogazioni) sia per quelle attive con modelli più operativi (i progetti propri).
Se dovesse semplificare la complessità organizzativa del mondo delle Fob, quali sono i tratti comuni che a suo parere caratterizzano i loro diversi “stili” manageriali.
L’attenzione al territorio e l’apertura verso progetti partecipati con altri attori locali (siano questi beneficiari o partner) è l’elemento comune. La squadra di governo “affiatata” decide in base all’analisi dei disagi locali e vaglia possibili alternative tese a ridurli, magari sperimentando più progetti e monitorandone i risultati. Una squadra più “approssimativa” finanzia progetti in base a valutazioni meno manageriali e più dettate dalle emergenze.
Quale relazione emerge dalla ricerca fra la qualità e la composizione degli amministratori e le strategie perseguite?
Il capitale umano “raccolto” con la formazione degli organi di governo deve essere messo al servizio della Fondazione. Studi anglosassoni ci dicono che il board che funziona è quello che “regala” o “investe” più ore al di fuori delle riunioni degli organi nell’affiancare i livelli operativi. Senza sostituirsi ad essi ma indirizzandoli e consigliandoli nell’implementazione dei diversi progetti.
Professore, allora, come escono le Fondazioni di origine bancaria da questo studio?
Le Fob sono attori filantropici insostituibili nel nostro contesto e di assoluta rilevanza nel panorama europeo. Lo sforzo profuso nell’autoregolamentazione della governance per consentire la formazione di organi di governo “proattivi” (al servizio della Fondazione e in grado di anticipare eventuali criticità imparando dal proprio vissuto) è la strada da perseguire con sempre maggiore forza. Un buon Cda è un asset di enorme valore, l’unico in grado di garantire un ottima resa “sociale” dei propri patrimoni. Un buon Cda, tuttavia, si coltiva nel tempo, mappando i profili necessari e mettendoli al lavoro.
Ci sono differenze sostanziali in termini di modelli organizzativi all’interno di questa tipologia di Fondazioni?
Creare “valore sociale” in un contesto di recessione è impresa ardua e necessaria. Ci si può arrivare per molte strade diverse e per questo è opportuno ed importante che le Fob differenzino i propri modelli operativi tra fondazioni erogative pure e fondazioni più operative. Il mecenate “proattivo”, tuttavia, seleziona sul territorio gli attori del Terzo Settore che più di altri meritano il supporto finanziario (perché hanno competenze uniche e di spessore nel settore che presidiano). Il mecenate “proattivo” è strutturato per dire no a tutti gli altri richiedenti che non hanno questi requisiti. È giusto e interessante, pertanto, seguire le Fob che finanziano altre realtà selezionate per i meriti guadagnati sul campo. Analogamente, un filantropo strategico “proattivo”, che preferisce i progetti propri alle erogazioni, investe in società strumentali e progetti in partenariato laddove non vede attori del terzo settore idonei. È interessante, pertanto, anche seguire le Fob che stanno sperimentando l’imprenditorialità sociale in prima persona o come “venture capitalist”.
L’esistenza di un patrimonio “fondante” è la caratteristica comune di tutte le fondazioni. Ma quali diversità si evidenziano tra le Fondazioni di origine bancaria ed altre fondazioni private a fini erogativi o rispetto alle fondazioni di comunità?
Le Fob non hanno un “padre fondatore” alle spalle (sia questo un singolo individuo o un’impresa) e non sono il frutto di operazioni associative “dal basso” come ad esempio le fondazioni di comunità. Il buon governo e la buona leadership nelle Fob vanno costruiti sul campo, mediando tra i diversi interessi che le sostengono e supportano. In questa direzione il saggio proposto cerca di fornire concreti spunti di riflessione agli operatori del settore, partendo dall’analisi delle competenze necessarie nel Cda per concludere con gli strumenti manageriali di supporto al controllo dei risultati.
Quanto incide il profilo personale dei vertici delle Fondazioni nel connotarne il profilo strategico?
Ogni grande impresa (for profit o non profit) crea valore grazie alla squadra di governo e al leader (amministratore delegato o presidente) che questa sceglie. Sintonia d’intenti, controllo tra pari sui conflitti di interesse, autovalutazione delle prestazioni dei soggetti apicali, sfiducia costruttiva: sono comportamenti virtuosi in una organizzazione “proattiva”. I vertici che sfuggono all’analisi critica e all’autovalutazione rischiano più di altri di prendere decisioni miopi. I vertici che li incorporano nel processo decisionale possono dar vita a cicli strategici anche molto lunghi, conferendo stabilità all’operato della fondazione.
Si può dire che le Fondazioni hanno un ruolo di trait d’union tra gli operatori del terzo settore, di cui le stesse Fondazioni fanno parte, e il mondo del profit, in particolare quello del credito?
Certamente. Ma credo si possa allargare il discorso andando ben oltre il credito. Le Fondazioni “proattive” selezionano gli operatori meritevoli dei propri finanziamenti e, un secondo dopo averle finanziate, sono al loro fianco per facilitarne l’accesso al credito, alle risorse relazionali, alle risorse manageriali, ecc. necessarie per sviluppare con maggiori probabilità di successo il progetto presentato. Qualsiasi banca d’investimento segue questo schema, si tratta di replicarlo per delle Fondazioni che sono anche “banche d’investimento sociale”.
Quanto la capacità di programmazione incide sull’efficacia dei risultati di una Fondazione?
In un contesto recessivo come il nostro si programma anche per poter dire di no a richieste molto qualificate. Se escono dal piano di medio-lungo periodo, non possono essere accolte. Programmare, tuttavia, non vuol dire guidare con il pilota automatico. Il rischio d’impresa permane e il fallimento di alcuni progetti, magari ambiziosi, fa parte del gioco. La programmazione, tuttavia, procede a braccetto con il controllo e non valutare come tali gli insuccessi, o peggio perpetrarli, vuol dire non pianificare correttamente.
Che cosa possono fare le Fondazioni per accrescere il proprio “buon governo”, in particolare le Fondazioni di origine bancaria?
L’autodisciplina è la strada seguita in tutti i paesi sviluppati. La Carta delle Fondazioni è un primo incoraggiante passo. Si tratta ora di corroborare quanto proposto, implementarlo nel numero maggiore di casi, aggiornarlo, verificarlo, smentirlo se e ove opportuno mantenere una soglia molto alta di attenzione sulla capacità delle Fondazioni di leggere le situazioni di disagio, studiarle e rispondervi con progetti coerenti con il proprio limite di mezzi e risorse.
Che ruolo gioca la capacità di confronto con il mondo esterno? Con la propria comunità di riferimento?
Nessuna squadra di governo potrà mai essere competente per tutte le aree di intervento su cui operano le Fob. In questo caso i board devono essere “permeabili” dall’esterno, disposti ad essere formati e aggiornati sulle tendenze emergenti nel non profit, desiderosi di studiare in prima persona i fenomeni su cui intervengono, aperti alle testimonianze degli esperti che già ci lavorano e in grado di filtrare il tutto per prendere decisioni d’intervento e rischi calcolati. Per sposare poi il clima emergente di sobrietà istituzionale credo cha la società civile sia oggi in grado di contribuire al governo delle Fob con esponenti ispirati dalla condivisione dei valori sociali dei progetti finanziati, dalla gratuità di parte del proprio operato, dalla maggiore reputazione che l’appartenenza a un organo di una Fob conferisce. La comunità di riferimento è il bacino di talenti da cui pescare, in diversa forma, per costituire una squadra di leader al servizio della filantropia.