Skip to main content

Acqua e disuguaglianze: il prezzo della scarsità | Filippo Menga

Testimonianza di Filippo Menga
per Fondazioni settembre 2025

Filippo Menga è Visiting Research Fellow all’Università di Reading e caporedattore della rivista Political Geography. I suoi studi si concentrano sulle politiche delle risorse naturali e la geopolitica dell’acqua. È autore di numerosi articoli e libri, tra cui l’ultimo “Thirst: The Global Quest to Solve the Water Crisis” (Verso, 2025).

L’acqua è la risorsa che più di ogni altra rivela le disuguaglianze del nostro tempo. La crisi idrica non significa soltanto fiumi in secca o falde inquinate: vuol dire raccolti perduti, comunità senza infrastrutture adeguate, famiglie costrette a destinare una quota crescente del proprio reddito alle bollette o all’acquisto di acqua in bottiglia. Anche in Italia le siccità e le alluvioni degli ultimi anni hanno colpito soprattutto chi aveva meno mezzi per difendersi. Quanto avvenuto in Sicilia nel 2024 è esemplare: al picco della crisi idrica, il costo di un’autobotte da ottomila litri è passato da 50 a 160 euro in appena tre mesi, dando vita a un vero e proprio business dell’acqua che ha colpito in modo sproporzionato le famiglie più vulnerabili. Dinamiche simili sono ben visibili nelle bidonvilles di Lima, Città del Capo o Nairobi, dove interi quartieri non sono collegati alle reti idriche e gli abitanti dipendono da rivenditori privati che vendono acqua a prezzi molto più alti rispetto alle tariffe pagate nei quartieri centrali. Qui la sproporzione nasce dall’assenza di investimenti pubblici e dall’affidamento del servizio a mercati paralleli, che trasformano l’acqua in un bene di lusso per chi è povero. Questi esempi mostrano come la crisi idrica non colpisca tutti allo stesso modo, ma amplifichi povertà e disuguaglianze già esistenti. È per questo che parlare di una “crisi idrica globale” è fuorviante. Non esiste una scarsità uniforme che riguarda l’intero pianeta: i problemi sono situati e politici. In Italia le reti perdono in media oltre il 40% dell’acqua immessa, con punte oltre il 50% al Sud; in Spagna le irrigazioni intensive prosciugano falde e bacini; a Città del Capo, durante la crisi del 2018, i quartieri ricchi si sono garantiti pozzi privati mentre le periferie avevano accesso a poche decine di litri al giorno.

“L’acqua non è solo una risorsa naturale: è lo specchio delle disuguaglianze. Dove manca o costa troppo, amplifica la povertà. Decidere se trattarla come merce o come bene comune significa scegliere il modello di società futura”

Ridurre tutto a “crisi globale” significa nascondere responsabilità specifiche e depoliticizzare il problema. La filantropia, in questo contesto, commette spesso due errori: offrire soluzioni tecniche calate dall’alto – pozzi, desalinizzatori, dighe – senza curarne manutenzione e governance; e presentare l’acqua come questione tecnica, quando è soprattutto questione di potere e di giustizia. Ed è proprio per questi motivi che il caso dell’acqua rende evidente lo scontro tra due logiche opposte. Se prevale quella del profitto, l’acqua diventa merce: un bene trattato come qualsiasi altra commodity, accessibile solo a chi ha risorse sufficienti e fonte di esclusione per chi ne è privo. Se invece prevale la logica della cura, l’acqua viene riconosciuta come bene comune, diritto fondamentale e condizione per la vita. L’acqua ci mostra, dunque, che il futuro non dipenderà soltanto da tecnologie più avanzate o da nuove infrastrutture, ma dalla capacità collettiva di scegliere la cura come principio politico, economico e culturale. Significa mettere al centro la dignità delle persone, la giustizia sociale, la solidarietà tra territori e generazioni. È questa la posta in gioco: non solo come gestire una risorsa naturale, ma quale modello di società vogliamo costruire, e se intendiamo farlo ponendo la cura al di sopra del profitto.

Dalla rivista Fondazioni luglio-settembre 2025