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L’insostenibile pesantezza della povertà

Spogliatici a fatica delle nostre anime e indossata una pesante armatura finemente cesellata di cinismo, proviamo a domandarci: ma la povertà conviene al nostro sistema economico? Cioè, la povertà è una condizione per lo sviluppo, così come lo abbiamo sino a oggi conosciuto? A una lettura superficiale, sembrerebbe di sì. In un’economia basata sulla libera concorrenza, in cui la competizione è la regola di ingaggio, disporre di una forza lavoro a basso prezzo, potenzialmente inesauribile, accessibile e rimpiazzabile al ribasso, sembrerebbe essere funzionale a un sistema che fa perno sull’economicità dei fattori della produzione. Mobilità della forza lavoro e dei capitali hanno reso ancora più esasperata la competizione sul prezzo, favorendo la delocalizzazione e/o l’importazione di manodopera a basso costo. Alle politiche di welfare, alla cooperazione internazionale e alla buona volontà di romantici cultori dell’uguaglianza e filantropi di varia natura è demandata poi la responsabilità di lenire i pesanti effetti che questa impostazione, per sua natura e funzionamento, inevitabilmente determina, riequilibrandone periodicamente il meccanismo. Il sistema divora e, al tempo stesso, genera “scarti” umani, e lo stesso sistema ha sviluppato gli anticorpi per prendersi parzialmente cura di chi è lasciato inesorabilmente ai margini. Ma questi anticorpi sono sufficienti a garantire l’equilibrio su cui questo sistema si fonda? Scalfendo la superficie, sempre vestiti di quella pesante armatura, è facile rendersi conto che questo sistema, alla lunga, presenti numerosissime e sempre più evidenti crepe. L’aumento della popolazione mondiale e la conseguente scarsità di risorse naturali, la polarizzazione delle diseguaglianze tra i paesi e al loro stesso interno, i crescenti e inarrestabili fenomeni d’inurbamento, l’estendersi progressivo di territori inospitali a causa del cambiamento climatico, il riaccendersi dei nazionalismi, lo scoppio continuo di focolai di conflitto, generano un diffuso stato di incertezza che non lascia indenni neanche coloro che traggono da questo modello i benefici maggiori. Sono effetti e, allo stesso tempo, cause, di un inceppamento o, si potrebbe dire, di un vizio congenito, di un sistema che mette in conto il sacrificio di una sua parte per il benessere della restante, nella speranza che la prima si riduca progressivamente sino a scomparire, fingendo di ignorare che, invece, la prima è il carburante di tutto il sistema, senza la quale esso non può funzionare. Ma se questa parte diventa sempre più grande e incontrollabile, allora il sistema non sarà in prospettiva più in grado di ritrovare il suo equilibrio. Spogliandoci finalmente della scomoda armatura, e rivestitici delle nostre umili anime, possiamo aggiungere che questo sistema, non solo non è tecnicamente ed economicamente sostenibile, ma è, più semplicemente, profondamente ingiusto. Si dirà: “ma la povertà è sempre esistita e, forse, oggi è meno feroce che nel passato”. Ma la consapevolezza che la povertà sia sempre esistita non può indurci alla rassegnazione di accettarla come inevitabile o addirittura naturale e, pertanto, ineliminabile. Essere immersi in un sistema più grande di noi e di cui siamo insignificanti, ma funzionali ingranaggi, non può esimerci dal provare costantemente a immaginare un altro mondo possibile, dove la povertà diventi solo un lontano ricordo, narrato al più sui futuri libri di storia.

Dalla rivista fondazioni luglio-settembre 2025