Testimonianza di Sara De Carli
per Fondazioni giugno 2024
Sara De Carli è una giornalista di Vita che da vent’anni segue i temi legati a infanzia, adolescenza, scuola, inclusione e genitorialità. Dall’anno scorso cura la newsletter settimanale “Dire, fare, baciare. Parole e azioni attorno a educazione, scuola e famiglia”, che esce ogni martedì: www.vita.it/newsletter/dire-fare-baciare
Sulle nuove generazioni vedo imperare due narrazioni contrapposte: una allarmista e una vittimista. Nessuna delle due ci aiuta a capire realmente il fenomeno. Per riflettere sul tema del dialogo intergenerazionale, è invece utile partire dal dato demografico: il numero di giovani, oggi, è decisamente inferiore rispetto a 50 anni fa ed è decisamente inferiore alla quota di popolazione adulta. Già oggi per ogni giovane, in Italia, ci sono due anziani e tra qualche anno saranno tre. È evidente quindi che essi, “pesando” meno sul totale della popolazione, pesino meno in termini di rilevanza sociale e politica. Ci aveva forse visto giusto l’economista Luigi Campiglio, quando, nel 2007, lanciò provocatoriamente, ma neanche troppo, l’idea di dare ai genitori un voto anche per i loro figli minorenni, bilanciando in questo modo il deficit di rappresentanza di chi dovrà vivere quel futuro che oggi viene deciso e disegnato da altri, che invece non ci saranno. Rappresentando di fatto una minoranza, i giovani oggi hanno quindi molta più difficoltà – rispetto a quando lo erano i loro genitori e i loro nonni – a imporre nell’agenda politica del Paese i temi che stanno loro a cuore. Penso che non si tratti solo di “ridare la voce” ai ragazzi, ma di avviare un esercizio collettivo per diffondere una nuova consapevolezza orientata al reale ascolto delle nuove generazioni. Ascolto non vuol dire realizzare tutto quello che loro chiedono e desiderano, ma restituirgli la dignità di essere interlocutori credibili, prendendo sul serio le loro idee sul futuro del Paese, instaurando un dialogo e un confronto reale, anche quando questo implica una contrapposizione di visioni. La scuola, essendo il luogo dove adolescenti e ragazzi trascorrono molta parte del loro tempo, certamente è uno spazio di “allenamento” a questo. Ma non basta. Penso che dobbiamo sforzarci di riconsegnare ai giovanissimi tanti altri i luoghi, dove possano essere loro i protagonisti: spazi che loro decidano come riempire di contenuti, spazi che loro possano autogestire, spazi che offrano veramente l’opportunità non mediata di mettersi in gioco e di impegnarsi attivamente e collettivamente. Ultimamente vedo nascere tante esperienze di questo genere, anche accompagnate dalle Fondazioni, ed è un bellissimo segnale: non possiamo lamentarci della mancata partecipazione alla collettività dei neo diciottenni al momento del voto se prima di quel momento non abbiamo mai dato loro spazi e modi di partecipare alla vita pubblica e alla costruzione del bene comune.
“Non possiamo lamentarci della mancata partecipazione alla collettività dei neo diciottenni al momento del voto se prima di quel momento non abbiamo mai dato loro spazi e modi di partecipare alla vita pubblica e alla costruzione del bene comune”
Sul tema del disagio giovanile, che sta emergendo sempre più, ritengo che non si debba cadere in una iper-patologizzazione delle fragilità che hanno a che fare con la crescita. Ansia, disagio, Neet sono tutte “etichette” che certamente descrivono una realtà oggettiva e preoccupante, ma che rischiano di indurre molti ragazzi a costruirsi un’identità che sta tutta dentro queste dimensioni. Stiamo “patologizzando” tutto e non riusciamo più a distinguere la sofferenza psicologica del crescere dai veri bisogni socio-sanitari. Gli osservatori più attenti ci dicono che, come adulti e genitori, preferiamo incasellare le cose in una griglia sanitaria perché troviamo insopportabile la sofferenza dei nostri figli che leggiamo come un fallimento rispetto all’idea di genitorialità performante con cui tutti ormai dobbiamo fare i conti. Quel che è peggio, però, è che i nostri figli, quando stanno veramente male, hanno paura di dirlo per proteggerci, perché sanno che il loro star male ci travolgerebbe. Invece, la fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta è sempre un momento di fragilità, che dobbiamo accettare, perché è un periodo di grandi cambiamenti in cui ciascuno di noi è chiamato a trovare il proprio posto nel mondo. In passato questo passaggio poteva apparire più semplice, probabilmente perché le strade erano già tracciate e chiare. Oggi, invece, si aprono tantissime opportunità di percorsi di vita (professionali e famigliari), che rendono questo passaggio più complicato e carico di emotività. Sono convinta che, oltre alle fragilità dei giovani, dovremmo provare a valorizzare le loro competenze, la motivazione e il contributo che possono dare allo sviluppo dell’intera società. Questo potrebbe contribuire a ridare loro la voce e il peso che meritano.
Dalla rivista Fondazioni giugno 2024